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Società

La necessità del silenzio e le troppe solitudini dimenticate negli auguri di Natale del cardinale Roberto Repole

L’arcivescovo di Torino e vescovo di Susa ha parlato delle tante solitudini che ci circondano: anziani, malati, carcerati

Redazione Quotidiano Piemontese

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TORINO – Lunedì 23 dicembre 2024 il cardinale Roberto Repole, arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, ha incontrato giornalisti e operatori dei mass media per il tradizionale augurio di Natale a loro e alla città.

Il cuore dell’intervento del Cardinale è stato dedicato al valore del silenzio, che sempre dovrebbe accompagnare la celebrazione del Natale. Solo facendo silenzio attorno e dentro di sé, ha spiegato l’Arcivescovo, si diventa capaci di accogliere e cogliere il Verbo che si è fatto carne in mezzo a noi e cogliere ciò che nel caos e nella fretta a volte sfugge; solo nel silenzio è possibile «vedere la realtà più a fondo.

A partire dalle tante solitudini che ci circondano: quelle delle persone anziane, dei malati, dei carcerati e, più in generale, di tutte le persone che ci stanno accanto e con le quali spesso non siamo più capaci di immedesimarci. Ma anche le paure, che attanagliano giovani e meno giovani: la guerra, il futuro, l’impoverimento, la tecnicizzazione e la burocratizzazione. Vite di tutti i giorni ma che spesso non vediamo.

L’audio delle parole dell’arcivescovo di Torino e vescovo di Susa

La trascrizione delle parole di Roberto Repole all’incontro con gli operatori dei mass media per lo scambio di auguri di Natale

Buona giornata a tutte e a tutti anche da parte mia e davvero un caro augurio di santo Natale sin dall’inizio, insieme a una grande gratitudine per la vostra presenza qui. Sta diventando un po’ una consuetudine, un modo di farci gli auguri di Natale, condividendo qualche pensiero per la festa che viviamo insieme. Nel farlo vorrei proporvi una antifona natalizia, che si canta oppure si recita nell’ottava di Natale – sapete che il Natale per noi cristiani si distende in otto giorni, che è come fossero un’unica celebrazione – ha un latino bellissimo ma ve lo risparmio, ve la cito in italiano perché non perde nulla del suo senso e della sua profondità. E dice così: «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte giungeva a metà del suo corso, il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale».

lo la trovo bellissima perché esprime davvero un aspetto della ricchezza multiforme del Natale. Che cosa avviene a Natale? Che il Verbo eterno, la Parola eterna di Dio scende – dice l’Evangelista Giovanni nel prologo, nel suo inizio – mette la sua tenda in mezzo a noi, si fa carne. Ma perché questa Parola eterna possa essere accolta, perché possa diventare fonte di speranza, di comunione, ci va da parte del mondo tutto, a cominciare dagli uomini, un profondo silenzio. Ed è bellissima allora l’intuizione di quest’antifona che dice: è proprio nel mezzo della notte, quando il silenzio avvolge tutto, che la tua Parola scende.

Perché ci tenevo a condividere con voi questo pensiero? Perché mi sembra che vivremo tanto di più il Natale tutti insieme, nella sua profondità, quanto più ci allontaniamo oggi dal Natale consumistico in cui siamo immersi. Non so quale sia la vostra sensazione, ma a me pare che nei giorni precedenti il Natale c’è una frenesia, un’ansia, una corsa e una fretta che paradossalmente è infinite volte più grande di quella degli altri giorni, lasciandoci poi, dopo il Natale, dopo le feste, quel senso di vuoto, di svuotamento, quasi – tutto sommato – anche un po’ di infelicità, probabilmente perché appunto manca questa capacità di un silenzio, che non è soltanto un silenzio esteriore, ma è anche un silenzio interiore, un silenzio che domina – potremmo dire – molti sentimenti, molti pensieri, molte passioni che abitano il cuore dell’uomo.

C’è un teologo dell’altro secolo, gesuita, un importante teologo, Karl Rahner, che in una sua meditazione del Natale mi sembra ci dia la cifra della decisività di questo silenzio, perché dice: se vuoi vivere il Natale, devi avere il coraggio di rimanere da solo, devi avere il coraggio di rimanere da solo; e se rimani da solo, se hai questo coraggio – dice lui – allora sperimenterai Dio come altro da una semplice aggiunta alle cose di sempre. Interessante! Anche per i cristiani – verrebbe da dire – Dio potrebbe apparire come l’aggiunta all’esperienza di tutti i giorni. Solo se hai il coraggio di rimanere solo, di fare silenzio, allora sperimenti che Dio non è questo, che è infinitamente vicino – dice Rahner – pur sembrandoti altrettanto infinitamente lontano. E non è un paradosso, perché noi tendiamo sempre a trattare Dio come una cosa di questo mondo, e invece Dio è veramente Colui che è massimamente vicino, ma apparendoti in tutta la sua lontananza, cioè in tutta la sua distanza dal mondo, dalla nostra storia, da ciò che noi siamo: non è un pezzo di mondo prolungato.

Perché volevo condividere con voi questi pensieri? Perché mi sembra che per noi cristiani dalla celebrazione autentica del Natale scaturisca appunto una capacità di silenzio che ci permette di vedere meglio la realtà, di vederla più a fondo.

Ci permette, in questo Natale del 2024, pensando alla nostra città di Torino, pensando al nostro Piemonte, di vedere meglio moltissime SOLITUDINI che si consumano nelle nostre strade, nei nostri palazzi. Sono solitudini di persone anziane. Lo sapete meglio di me: questa è una città particolarmente vecchia e tanti anziani vivono delle solitudini grandissime.

Ecco, celebrare il Natale ci permette di ritrovare quel silenzio che ci consente di vedere meglio la solitudine di tanti malati. Per molti la malattia non è soltanto una prova grandissima, ma è una prova che si è costretti a vivere da soli ed è un dramma nel dramma.

È quel silenzio – quando si vive in profondità il Natale, quando si lascia un po’ da parte il consumismo che lo attornia in questi giorni – che ci consente di vedere per esempio la solitudine dei carcerati. È interessante che noi abbiamo un carcere qui a Torino davvero molto popoloso, ma sembra una realtà totalmente estranea alla nostra città. Sono andato a visitarlo l’altro giorno e mi colpisce sempre sentire che c’è un dramma che si consuma lì dentro, non soltanto per i carcerati, ma anche per le guardie. Si accendono i riflettori anche del mondo mediatico quando succede – come è successo quest’anno – quando succede qualcosa di tragico e poi però, dopo, è come se vivessimo in una città che si dimentica di avere un carcere così popoloso.

Ecco, è il silenzio quello che ci permette di vivere il Natale, che ci consente di ascoltare meglio la realtà, anzitutto la realtà delle solitudini. È il silenzio che ci potrebbe permettere in questo Natale di ascoltare meglio ciò che passa nel cuore degli altri. Se vi devo fare una confessione, davvero a cuore aperto, mi sentirei di dirvi così. Pensavo, fino a qualche tempo fa, che l’empatia fosse una cosa abbastanza comune tra gli esseri umani. Ma più vado avanti, più mi sembra una merce rara, eppure decisiva. Cioè sono davvero poche quelle persone che sono capaci di mettersi nei panni degli altri, di sentire ciò che gli altri sentono. Ecco, mi sembra che vivere in profondità il Natale ci permetta di fare questo silenzio esteriore ed interiore che ci consente anche di accostare l’altro come altro e di chiederci: ma che cosa sta vivendo? E qualunque sia il volto della persona che abbiamo davanti: può essere, da questo punto di vista, ricchissimo, poverissimo, potente o meno potente, ma è un altro che ha un cuore, ha una vita. E credo che qui c’è un principio di forte disumanizzazione, se perdiamo la capacità di empatizzare.

Un silenzio che ci consentirebbe anche, proprio in questo Natale, di ascoltare le PAURE che in questa Città, in questa Regione, attraversano la vita e il cuore di tante donne e tanti uomini. Ce ne sono tante di paure e mi colpisce questo: anche tra i più giovani! Penso per esempio alla paura della guerra. Con questi scenari di guerra che ci sono mi colpisce che molti giovani hanno le antenne davvero dritte e sentono un senso di paura, che a volte diventa angoscia, che questa guerra possa toccare le nostre vite. C’è una paura che cresce.

La paura del futuro, perché – lo sappiamo bene – mentre il XIX secolo e il XX secolo erano il tempo in cui si guardava al futuro come all’avanzare del meglio, oggi si guarda il futuro in genere con la paura che il domani renda peggiore la vita di come sia oggi.

La paura deH’impoverimento. Lo dicevo a qualcuno di voi in un’intervista fatta di recente: mi colpisce la disparità sociale sempre più netta nella nostra città. Di per sé è una città – se si facesse la media – anche ricca, ma con delle sproporzioni enormi, e questo nella vita delle persone poi ha un sentimento preciso: la paura che mi possa impoverire, che non possa più offrire alla mia famiglia ciò che ho offerto fino ad adesso. I nostri rapporti Caritas sono interessanti, ancorché inquietanti, quando ci dicono che oramai anche chi ha il lavoro può cadere in una situazione di povertà. Però ci va il silenzio per poter vedere ciò che nel caos e nella fretta a volte sfugge e può sfuggire anche a chi dovrebbe in qualche modo monitorare la realtà.

Aggiungo un’altra paura, che non è così comune – mi sembra – rilevare o rintracciare, che è quella prodotta da un mondo sempre più scientista e tecnologico. Per molte persone l’avanzare della tecnica significa perdere delle possibilità che si avevano prima. Qualcuno mi dice – e non stento a crederlo, anche soltanto per le piccole cose che ti capita di dover fare nella tua vita personale – che ci sono degli anziani che rinunciano a curarsi perché la tecnicizzazione, la burocratizzazione legata alle prenotazioni di esami, magari importanti, fa sì che tu a un certo punto getti via l’amo. Se mettiamo la solitudine insieme all’anzianità e alla malattia, in un contesto così, si capisce bene come si possono aprire degli scenari davvero faticosi. Una persona, un’anziana che non ha figli, mi diceva: adesso devo cercare come fare perché il medico manderà soltanto le email e io non ho il computer; speriamo che con la farmacia si faccia qualcosa. Ma sono vite di tutti i giorni… Per dire, però, che nel quieto silenzio, nel cuore della notte, lì il tuo Verbo è sceso e, quando si vive il Natale a questa profondità, si ridiventa capaci di quel silenzio che ti permette di guardare la realtà.

Se me lo consentite, pensavo che questo può essere davvero anche un augurio particolare e specifico fatto a voi come GIORNALISTI perché credo che sia soltanto dal silenzio che possano sgorgare delle parole vere e ancora sensate, in un mondo come il nostro, che vive in un profluvio di parole oramai prive di verità e di senso. Entro in un campo che non è mio – al limite voi mi direte che dico una sciocchezza – però mi sembra che se oggi, nel 2024, ha ancora un senso il fatto che esistano dei media tradizionali, a dispetto dei new media che oramai fanno come un rumore di sottofondo a tutta la nostra realtà, ecco io lo vedrei in questo: nella capacità di chi fa il vostro lavoro di silenzio esteriore ed interiore, per dire non delle parole a casaccio, ma per dire ancora delle parole “vere” e “sensate”. E questi due aggettivi per me hanno un carico forte, perché dicono di un modo di rapportarsi alla realtà: parole vere e sensate. E da questo punto di vista avete in mano – secondo me – delle possibilità davvero belle, proprio dentro un mondo iper-mediatico come il nostro, che però rischia di produrre un rumore costante, diffuso, che rende le parole inutili, alla fine anche innocue.

Penso a quel silenzio che a un giornalista è chiesto per spegnere le passioni di cui anche lui o lei vive, perché se si fa il giornalismo animati semplicemente dalle proprie passioni, le parole saranno semplicemente la proiezione all’esterno delle passioni interiori. Ci andrebbe – credo – anche una certa ascesi nel lavoro che cerca di dire cose vere e sensate.

Penso al silenzio che vi è chiesto per ricercare tutto ciò che è da cercare con la massima onestà possibile. Penso al silenzio che vi è chiesto per non seguire semplicemente il mainstream. Ve lo confesso francamente, ma a volte alcune letture mi stancano perché sai già all’inizio che cosa si dirà alla fine: è il pensiero comune, alla fine inutile. Bisogna scrivere, bisogna dire, però il problema è quel silenzio che è necessario per non seguire semplicemente il mainstream.

Soprattutto penso a quel silenzio che è indispensabile per rendere conto di tutto il bene che c’è e che soltanto il silenzio onesto è capace di rilevare, anche quando di per sé non farebbe notizia. Perché è chiaro – lo sapete molto meglio di me – che i fatti di una certa cronaca sono pruriginosi e rendono subito, danno capitale al lavoro che hai fatto. È molto più faticoso, ancorché necessario credo per chi fa il vostro lavoro, saper cogliere però il grande bene che c’è e che non soltanto è silenzioso ma richiede davvero un silenzio onesto per essere rintracciato.

L’altro giorno, nelle visite pre-natalizie che ho fatto – e poi concludo -sono stato a visitare una cooperativa, la Arco. Un intero palazzo, mi ha colpito: c’è un poliambulatorio, c’è un’accoglienza delle mamme sole con bambini, c’è un’accoglienza di malati psichiatrici, c’è una mensa alla sera (in genere in città ci sono molte mense, ma sono tutte per il pranzo, quella è alla sera)… Per dire che questa è una realtà che probabilmente non passerà mai all’onore delle cronache, ma quanto bene potrebbe fare se passasse? Perché – voi sapete molto meglio di me – in qualche modo si attivano anche dei meccanismi emulativi nel male come nel bene.

Quindi credo che potrebbe essere un Natale – ed è anche l’augurio che faccio a ciascuno di voi e a voi – avvincente per chi fa il vostro lavoro, sapendo che nella misura in cui si ridiventa capaci di quel silenzio profondo si può guardare, vedere e trasmettere la realtà in un modo che il rumore continuo dei nostri canali, dei new media, a volte ci impedisce di vedere.

Finisco dicendo questo. Mi ha colpito molto negli incontri di questo anno, un dialogo con un politico che mi diceva così: quando c’è tra di noi politici una divisione, allora il mondo mediatico accende le sue luci e queste cose si vengono a sapere; quando c’è un accordo, magari su qualcosa che fa del bene ai cittadini e quindi che andrebbe in qualche modo fatto sapere perché possano usufruirne, a volte l’accordo impedisce che ci sia la notizia e dunque bisogna trovare degli altri canali perché le cose vengano sapute. Ecco, lascio a voi di interpretare questa cosa, però mi ha colpito, perché certe volte penso che ci sia un servizio nobilissimo, che oramai soltanto voi potete fare, ed è quello anche di valorizzare le cose che vanno valorizzate perché siano conosciute, perché siano davvero per il bene di una collettività, di una comunità, a cui credo tutti teniamo e per cui lavoriamo.

Vi auguro di scoprire un pochino, di riscoprire un pochino in questo Natale questo silenzio, che per noi cristiani è ciò che ci consente di accogliere la Parola che scende, e che per tutti noi può essere l’occasione per rapportarci meglio alla realtà in cui viviamo.

 

 

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