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Biella

Archeologia industriale, la storia delle Pettinature Rivetti a Biella

A ricordarci l’importanza di questo luogo è un gruppo di artisti e creativi locali, guidati da Gigi Spina, che ha deciso di dare nuova voce al gigante dormiente attraverso un’opera collettiva

Gabriele Farina

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BIELLA – All’angolo tra via Carso e via Piave, a Biella, si erge un monumento d’acciaio e cemento, testimone di un passato industriale glorioso e ora simbolo di abbandono: l’edificio delle Pettinature Rivetti, progettato nel 1939 dall’architetto Giuseppe Pagano, rappresenta un capolavoro dell’architettura razionalista industriale. Il complesso, che occupava 47.000 metri quadri nel centro cittadino, era il cuore pulsante delle Industrie Rivetti, un colosso tessile che ha scritto la storia economica e sociale di Biella.

Dopo la chiusura della fabbrica agli inizi degli anni Novanta, l’edificio è stato lasciato al suo destino, abbandonato a se stesso come un gigante silenzioso. Oggi, quando si arriva in città, quel monolite di cinque piani si staglia ancora all’orizzonte, circondato da un alto muraglione che lo separa dal resto della vita urbana. Eppure, nel trambusto quotidiano del traffico cittadino, in pochi sembrano notarlo. Il suo volume ingombrante è diventato parte del paesaggio, quasi invisibile agli occhi dei biellesi, nonostante la sua rilevanza storica e architettonica.

Ma dietro quelle mura c’è molto più che un edificio dismesso: c’è un pezzo di storia, un simbolo di un’epoca in cui il lavoro rappresentava il fulcro del benessere sociale, quando l’occupazione stabile era il motore dello sviluppo e della coesione comunitaria. Un tempo non così lontano, ma che oggi sembra relegato al dimenticatoio, in un presente segnato da precarietà e incertezze.

E noi zitti?

A ricordarci l’importanza di questo luogo è un gruppo di artisti e creativi locali, guidati da Gigi Spina, che ha deciso di dare nuova voce al gigante dormiente attraverso un’opera collettiva. Utilizzando il muraglione di cinta come una lavagna su cui proiettare la loro visione, i filmmaker Piergiorgio Clerici e Maurizio Pellegrini, i fotografi Antonio Canevarolo e Federico Trombini, il musicista Enrico Strobino e l’artista grafica Nicoletta Feroleto hanno realizzato un video di 24 minuti, un collage visivo e sonoro che racconta, frammento dopo frammento, la storia della fabbrica e di ciò che rappresenta.

Il loro lavoro, intitolato “E noi zitti?“, riprende il titolo provocatorio di un articolo scritto dallo stesso Pagano su Casabella, la rivista di cui era direttore, nel gennaio 1943. In quell’articolo, Pagano denunciava la distruzione dell’armonia urbana a causa di una speculazione edilizia senza scrupoli e la deriva urbanistica che ne derivava. Pochi mesi dopo quella denuncia, Pagano venne arrestato per attività sovversiva e internato a Mauthausen, dove trovò la morte il 22 aprile 1945.

Il video non si limita a raccontare il declino di un edificio, ma punta il dito anche su temi più ampi e profondi: la crisi del lavoro, il degrado degli spazi urbani, l’importanza della memoria storica. In una società che sembra dimenticare sempre più velocemente, opere come questa ci ricordano che il passato non è solo una questione di archeologia industriale, ma di identità collettiva.

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