Interviste
Piero Bini ci porta su Lo specchio dell’acqua
L’intervista con l’autore
TORINO – E’ un viaggio nello spazio e nel tempo quello in cui ci accompagna Piero Bini con il suo Lo specchio dell’acqua, Interlinea edizioni. Un viaggio in un mondo che sembra rimasto fermo, forse per la sua particolare conformazione. Siamo sul lago d’Orta, tra Orta e l’isola di San Giulio, un luogo magico, a tratti davvero fuori dal tempo.
Il protagonista torna nei luoghi della sua infanzia per prendere possesso di un’eredità. E’ infatti morto l’uomo che gli ha fatto da padre. In questo ritorno incontrerà nomi e luoghi quasi dimenticati, tesserà fili rimasti sospesi. Soprattutto cercherà risposte a domande mai fatte. Chi era davvero suo padre biologico? Che rapporto aveva avuto con l’uomo che l’ha cresciuto?
Sullo sfondo dell’isola e della immutabile placidità del lago, torniamo col racconto al periodo della Guerra, alla Resistenza. Ci muoviamo tra i monti e le barche alla scoperta di segreti mai detti, di storie rimaste nascoste, di misteri finalmente rivelati. Al centro un’episodio drammatico: l’attacco delle milizie fasciste ai partigiani locali.
Con una scrittura attenta e riflessiva, complessa e godibile, Bini ci porta in un mondo che conosce bene e lo rende in parte anche nostro.
Piero Bini ha voluto raccontarci il suo romanzo con una serie di ricordi:
“Lo specchio dell’acqua è un romanzo parzialmente autobiografico che ricorda gli anni 44-45 quando mio padre Fausto ci fece sfollare a Orta, per evitare i bombardamenti sullo scalo merci di Novara: città dove nacqui nel 1936. Dopo il 43 mio padre – ex vice Podestà della città – salì in montagna rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, guidato da mio nonno il borgomanerese dott Giuseppe Bono di famiglia risorgimentale: deciso antifascista. Ancora adesso conservo la sua biblioteca ricca di autori francesi che mia madre, grande lettrice, adorava: così, quando nel ’40 il regime fascista dichiarò guerra alla Francia, impazzì per il dolore e la vergogna (tanto che mio padre la inviò a Firenze).
Io da ragazzo salivo con i miei coetanei al Sacro Monte di Orta dove giocavamo alla guerra travestiti da indiani e da cow-boy. Oppure uscivo in barca su una canoa Brunetti coi sedili scorrevoli, come ricordo nel romanzo: meta l’isola da dove il giovedì e il sabato sgusciavano i seminaristi con il neo abito talare. Sui monti della riva opposta, venivano paracadutati gli aiuti alleati ai partigiani. Noi sognavamo di imitarli. Poi l’orrore quando a Meina sul Lago Maggiore affiorarono gli ebrei, annegati dai nazisti, arrivati da Salonicco, persuasi che in Italia le leggi razziali fossero poco seguite. Mio cugino Marco, nato a Milano da un cugino di mio padre, aveva come madre una ebrea libanese: e mio padre lo accompagnò in Svizzera attraversando di notte il confine…”
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