Cultura
Silenced Tree di Faysal Soysal vince l’ottavo Torino Underground Cinefest
Si è conclusa la Cerimonia di Premiazione dell’ottavo Torino Underground Cinefest, proposto dall’Associazione Culturale SystemOut e dall’Università Popolare ArtInMovimento, patrocinato dalla BIMED e diretto dal regista Mauro Russo Rouge. La serata condotta dall’attrice Martina Mascarello, affiancata da Annunziato Gentiluomo, ha proclamato i vincitori del TUC 2021.
La Giuria Lungometraggi, presieduta dal montatore francese Hervé Schneid, affiancato da Victoria Yakubov, Fabrizio Odetto; Alessio Brusco, Claudio Di Biagio e Davis Alfano, ha decretato come Miglior Film nella propria sezione il turco “Silenced Tree” di Faysal Soysal, “per l’importante questione morale che il film solleva a proposito del “senso di responsabilità” dell’individuo, e dell’artista, verso la collettività, per il poetico, struggente augurio che viene lanciato, affinché l’essere umano possa elevarsi e aspirare ad una nuova esistenza, fatta di empatia e consapevolezza, per averci insegnato che nessun sacrificio è mai vano, e che ogni fine porta con sé i germogli di un nuovo inizio!”.
Leandro Lara con “Rodantes” riceve il premio della Migliore Regia con la seguente motivazione: “La regia di Rodantes è il vero viaggio del film. Una giostra che spereresti non finisca mai; il comparto tecnico, le immagini, il montaggio e la direzione visiva sono elementi fondamentali per la narrativa di questa pellicola che viene diretta con una precisione e una magia intense. I protagonisti vivono un tempo e uno spazio definito quanto etereo, il loro percorso è infinitamente intimo e viene osservato da vicino, nei dettagli più realistici ma senza mai perdere l’occhio della meraviglia della messa in scena. Un lavoro ottimo di direzione creativa, narrativa e di significato”.
Javier Botet è il Miglior Attore per il ruolo di Javi nel film spagnolo “Amigo” di Óscar Martín. Tale premio viene assegnato “per come ha rappresentato in modo quasi maniacale e inquietante il disagio della malattia e del trauma psico-fisico subito, coadiuvato da un brillante lavoro sulla respirazione e sull’emissione del suono. La sua recitazione, sfaccettata, ma sapientemente misurata, raggiunge dei climax di cronenberghiana memoria, prodigandosi in contorsioni fisiche, capaci di trasmettere la sofferenza di un’anima imprigionata in un corpo e l’incapacità di raggiungere il suo unico scopo: la vendetta. Infine, è magistrale lo sviluppo emotivo del suo personaggio che si dipana in una escalation che, dalla rassegnata letargia, passa alla rabbia cruenta, culminando nel puro terrore”.
Susan Parvar è la Migliore Attrice per il ruolo di Akram in “Botox” diretto da Kaveh Mazaheri “in quanto ha saputo rendere con un potente “minimalismo espressivo” e con surreale ironia la drammatica condizione di una donna, oppressa dal duplice peso della malattia mentale e della discriminazione sociale operata da una società patriarcale e maschilista”.
Il Premio come Migliore Sceneggiatura è andato a Martín-Pereja-Botet (“Amigo” diretto Oscar Martín) “per essere stato in grado di orchestrare un dramma psicologico dalle tinte, a tratti, orrorifiche. Sofferenza e senso di colpa si scontrano tra loro dando vita ad una graduale e inesorabile discesa nella follia. Una struttura narrativa tanto minimale quanto raffinata: due personaggi, un’unica location, un’enormità di indizi e chiavi di lettura disseminati lungo tutto il racconto, mai didascalici, sempre efficaci e d’effetto. “Amigo” rappresenta un’opera narrativa dal forte impatto emotivo che riesce a legare lo spettatore ad entrambi i personaggi: ora tifiamo per uno, ora per l’altro, eliminando, di fatto, il concetto di buono e cattivo”.
Mostafa Kherghehpoosh (“Silenced Tree” diretto da Faysal Soysal) consegue il Premio per il Miglior Montaggio, decretato da Hervé Schneid, “per l’efficacia con cui viene dato risalto, attraverso la modulazione del ritmo, la luce e il suono, alle debolezze del suo protagonista Hayati e ai suoi legami con la vita recisi; e per l’utilizzo di un linguaggio espressivo libero e indiretto, come la poesia, preferito ad una narrativa lineare.
L’abilità del montaggio attribuisce al film più livelli di lettura, nonostante all’inizio possa sembrare che si parli esclusivamente di femminicidio. Un montaggio articolato che ci fornisce una serie di indizi sul protagonista, ma che non trascura gli argomenti secondari come per esempio la gioventù, l’arte e le sue opere.
“Silenced Tree” gioca sui colpi di scena, sui punti interrogativi e sui temi scabrosi, trattati con originalità, eleganza e poesia proprio grazie alle sue dinamiche articolate di montaggio.
In sintesi un montaggio elegante che esprime perfettamente il ritmo e la profondità del viaggio del suo protagonista”.
Davis Alfano ha conferito il Premio come Migliore Fotografia a Rodantes (Leandro Lara) “per aver saputo elevare la narrativa senza snaturare i contesti torbidi raccontati. Un maturo e consapevole utilizzo della potenza visiva, delle le forme, dei colori e dei controluce senza mai banalizzare in cartoline didascaliche. Riesce a pieni voti a mostrare con occhio ruvido una storia difficile”.
Paolo Armao ha attribuito il Premio come Miglior Sound Design a Donato Panaccio e Mauro Polito (Angelo Bianco diretto da Vincenzo Basso) in quanto “i suoni e le composizioni musicali accompagnano lo spettatore all’interno della soggettiva emotiva dei personaggi, creando una sospensione spaziale e temporale dove il reale si confonde con il surreale.
Piuttosto che ostacolarsi, sound design e musica condividono lo spazio, definendo un’estetica innovativa, dove i droni fanno da eco agli ambienti e agli effetti sonori”.
Conclude la sezione Lungometraggi, l’italiano “Angelo Bianco”, diretto da Vincenzo Basso, che riceve il Premio Speciale della Giuria “per lo straordinario coraggio, la sensibilità e la profondità dimostrate da un così giovane autore nell’affrontare il difficile tema della perdita e del distacco, per il genuino spirito di sperimentazione nell’assemblare suggestioni visive e sonore, per l’impressionante lavoro documentaristico di raccolta delle testimonianze reali, poi sapientemente rielaborate a produrre una drammaturgia potente che, fra dialetto e letteratura, filosofia e racconto popolare, sembra partorire l’embrione di un “nuovo linguaggio espressivo”.
La Giuria Documentari, presieduta da Andrea Morghen, al cui lato vi sono stati Claudia Palazzi, Zelia Zbogar, Elvira Sanchez Lopez, Hernando Gomez Gomez e Annunziato Gentiluomo, attribuisce l’alloro come Miglior Documentario a “Dear Child” di Luca Ammendola “per il messaggio di rinascita sotteso ad ogni fotogramma, nonostante la crudezza della realtà raccontata. Il documentario celebra i sentimenti, la speranza e soprattutto l’agire di chi si sporca le mani, di chi va in strada, di chi denuncia la malavita, di chi accoglie. Degna di nota la presenza del fotografo che sta per diventare padre, elemento che porta un’immediata immedesimazione da parte dello spettatore e che permette al tema dell’uscita dei minori dal circolo della criminalità e dal mondo della droga di travalicare i confini del Brasile. È una realtà che colpisce tutti, fa paura e ci richiama alla responsabilità e a quanto la mancanza di riferimenti e supporti possa portare a derive di disperazione e pericolosità tali. “Dear Child” è un documentario ricco e complesso che ha come fil rouge l’arte come volano per generare senso, riflettere su se stessi e stimolare la forza sostenitrice e trasformatrice del gruppo”.
Il Premio alla Miglior Regia va ad Andrea Grasselli (“Zenerù”) “perché riesce a inserire la poesia in un film, attraverso l’uso sapiente della luce e della fotografia e grazie a inquadrature sempre dense di significato. Pare in tanti momenti un affresco caravaggesco. “Zenerù” racconta i contrasti sottili tra storia e modernità, tra tradizione e globalità. Nel documentario il silenzio lascia spazio all’osservazione ed è imperante un occhio attento ai dettagli che solo un mondo antico può regalarci. In sintesi è un inno alla riconquista di un rapporto simbiotico con la Natura, con le forze primordiali dell’uomo: il protagonista, come per magia, interagisce attraverso rituali specifici con la Madre Terra, riscoprendosi, con orgoglio, suo devoto figlio”.
Consegue, invece, il Premio come Miglior Montaggio a Zohar Wagner (“21 Days Inside” di Zohar Wagner) “per la maestria con cui riesce a dipanare la narrazione di una storia, che forse sarebbe rimasta nascosta, attraverso un sapiente mix di documenti di archivio, registrazioni, interviste e animazione. Ci ha colpito in particolare il ricorso a quest’ultima per descrivere il retroscena della donna beduina e a degli oggetti simbolici, come le bambole, per evocare l’innocenza dell’infanzia drammaticamente spezzata. “21 Days Inside” racconta con coraggio la condizione di una donna che si può facilmente espandere a quella di tutte le donne, una condizione che si esprime attraverso un crescendo emotivo sostenuto da coerenza e fluidità offerte dal montaggio stesso”.
La Giuria dei Documentari attribuisce il proprio Premio Speciale a “Stop the Boats” di Simon V Kurian “per la completezza della trattazione del tema dei rifugiati richiedenti asilo politico in Australia, per la presenza dei molteplici punti di vista attraverso i quali viene descritto il fenomeno e per come denuncia il rifiuto dell’accoglienza a chi ha bisogno, frutto della volontà di un popolo incapace di riconoscere i diritti fondamentali e il valore della diversità. Esteticamente complesso, valido e intenso arriva a spiegare che, alla base di scelte disumane, ci sia la costruzione dell’emozione più deterrente e pericolosa, la paura”.
La Giuria Cortometraggi, presieduta da Armand Rovira, al fianco del quale vi sono stati Stefano Semeria, Lucio Toma, Laura Salvai e Carlo Conversano, stabilisce che il Miglior Cortometraggio dell’ottavo Torino Underground Cinefest è “My Planet” (“Ma Planète”), scritto e diretto da Valery Carnoy, “per la cura nella realizzazione, avvalorata dalle interpretazioni di Jean-Michel Balthazar e Stéphanie Lowette, porta avanti un forte messaggio di body positivity.
“My Planet” ci mostra ancora una volta come l’arte sia capace di spostare il nostro punto di vista in luoghi inaspettati e mostrarci il mondo esattamente dal lato opposto rispetto a quello che siamo abituati a vedere. I due protagonisti , attraverso le loro fisicità, sono i poli di una drammaturgia estetica che ci trasporta in questa nuova visione. L’ironia, la delicatezza, la sorpresa, sono compagni del viaggio attraverso cui il regista ci conduce.
Corpi distanti si riscoprono nell’intimità, davanti al silenzio e alla vastità del mare, metafora di una visuale spalancata oltre il muro del pregiudizio”.
Il premio alla Miglior Regia va a Eric Beauron (“Herma”), un film sviluppato a Parigi, ma girato sull’isola di Gabhla in Irlanda, con dialoghi in gaelico.
“Si tratta di un’opera fuori dai canoni, in cui il rapporto tra natura e divino è vissuto nella quotidianità di queste vite isolate e sospese. L’atmosfera richiama i canoni del realismo magico, di un cinema di un’altra epoca, riscoprendo le potenzialità di rigidità tecniche che si rivelano sorprendentemente espressive. La recitazione è in gran parte de-strutturata dall’interpretazione, si esprime attraverso frasi dirette, svuotate di enfasi che fanno da eco ai paesaggi rarefatti. Il mondo in cui personaggi vivono non è un mondo di natura muta, ma di presenze con cui gli uomini convivono e che sono parte integrante del loro destino. Al regista il merito di ricordarci che la natura e il cielo non sono fatti estetici o privi di motivazioni, ma densi di emozioni e significati che ci connettono alla dimensione del divino e del mito”.
Tess Haubrich (“The Listening” diretto da Milena Bennet) è la Miglior Attrice, in quanto “grazie a una recitazione sobria ed elegante, porta alla vita un personaggio fatto di fisicità e psicologia senza mai risultare eccessiva o fuori contesto. La narrazione sospesa tra lo slancio della vita e la caduta della morte, si rivela nel lavoro dell’attrice. Essenziale è il suo collegamento alla terra, metafora del ventre materno, portatore di nuova vita, ma costantemente minacciato dall’ombra della morte. Il lavoro della Haubrich ci restituisce la luce e, insieme, senza soluzione di continuità, l’oscurità della perdita, attraverso un lavoro capace di condensare l’intera atmosfera e senso del film nella sua fisicità e nell’intensità dello sguardo.
Il progredire dell’esperienza del parto, fa perdere alla protagonista la presa sulla realtà. Distanza e tempo, sogno e veglia, vivi e morti convergono nell’esperienza di un corpo, quello dell’attrice che ci trasmette una dimensione angosciosa e rinnovatrice”.
Il Miglior Attore è, invece, Kirin K. Callinan (“Kilter”, scritto e diretto da Rob Stanton-Cook), “attore e musicista australiano che ci regala un’interpretazione fatta di fisicità, espressione e movimento che riempie completamente lo schermo e la narrazione.
Kirin J Callinan è allo stesso tempo comprensivo, maestoso e frenetico, pieno della devastazione emotiva provata dal suo personaggio.
Un’interpretazione funambolica sul filo di una narrazione “esplosa” nel tempo e nei luoghi, in cui l’equilibrio tra eccesso e insignificanza è sottile. Il corpo dell’attore vive su di sé il disagio di questa ricerca, attraverso modificazioni d’identità, ferite e vuoti condensa tutta la drammaturgia sulla propria pelle di cui possiamo avvertire, respiri, sudore e brividi”.
Vince il Premio per il Miglior Montaggio Alfredo Hueck (“Wound Riders”, scritto e diretto da Angel Barroeta), “assolutamente funzionale alla trasformazione dell’avventura notturna di una giovane donna in una città sconosciuta in un viaggio alla scoperta di se stessa.
Il montaggio caleidoscopico di Alfredo Hueck, senza smarrire la linearità, costruisce un’atmosfera allucinata, dai contorni sempre più sfumati, rappresentativi dello smarrimento della protagonista, tra alcool, droga, sesso e violenza. L’inserimento di elementi non consequenziali nel montaggio incrementa la forza allucinatoria e il ritmo coinvolgente del film”.
Ricevono il Premio Speciale della Giuria dei Cortometraggi “Invisible Monster”, scritto e diretto da Guillermo Fesser e Javier Fesser, e “Parade” scritto e diretto da Yohann Gloaguen. Secondo la Giuria, con “Invisible Monster” “si è riuscito a creare un lavoro complesso riguardo un tema importante che viene affrontato con passione ed entusiasmo. Il linguaggio dimostra grande tecnica, oscillando tra documentario e fiction, con grande naturalezza e maestria. Il messaggio positivo del film è espresso in modo poetico e mai prevedibile all’interno di un contesto tragico e in apparenza senza speranza. L’immagine dell’aquilone costruito a partire dai rifiuti è la sintesi semplice e perfetta di un’opera capace di conferire una dignità sacra alla povertà e alla miseria, così distanti e inconcepibili per la società del benessere in cui l’Occidente vive”.
“Parade”, invece, “perché ci racconta una storia di dolore e ribellione mostrandoci la disperazione emotiva dei suoi protagonisti.
L’adolescenza ribelle, cinica, irrispettosa, incendiata da una curiosità sregolata è la vibrazione che muove la macchina da presa del regista. Il cammino è tortuoso, sorprendente, sboccato, ognuno di noi si può immedesimare in questa ricerca di identità fluida che non subisce i confini dell’età adulta. Grazie al racconto godiamo del piacere di immergerci in questo flusso indefinito e viviamo la diversità del protagonista, come la diversità e le difficoltà che ogni individuo vive nel cercare la propria, in quel momento folle e passionale che è l’Adolescenza”.
Si ricorda, infine, come già annunciato, che la Menzione Speciale ArtInMovimento proposta dalla redazione della testata main media partner del TUC, è andata al documentario canadese “What remains after we’re gone” di Nicolas Lachapelle (Canada) “per la sua capacità di portarci dentro la narrazione, al centro della quale vi è la ricerca della verità storica di ciascuno di noi. In questo viaggio si fa spazio una riflessione sensoriale e filosofica che tocca il rapporto stesso col passato che si personifica in uno spazio materiale, dove la casa diventa metafora di una condizione e specchio dell’essere. Tracce, ricordi, memorie protagonisti di un gioco animico di presenza-assenza. Lirico, emozionale, evocativo e al contempo concreto”.
“È stata un’edizione partita in sordina per svariati motivi, ma è cresciuta nei numeri strada facendo parallelamente all’entusiasmo di chi ci ha seguito con continuità in questi otto lunghi giorni. Tanti i feedback positivi sulla proposta e gli apprezzamenti degli autori giunti in sala o che ci hanno scelto on demand. Ciò ci serve da stimolo per motivarci e per credere in un ritorno alla normalità con una nona edizione ricca e partecipata. Il futuro del cinema in sala dipende molto dalle prossime uscite, anche e soprattutto quelle dei blockbuster. Mi auguro che queste abbiano l’appeal giusto per far sì che i fruitori recuperino la loro passione e la loro voglia di vivere la settima arte live. I festival, come il nostro, credo, possano essere in questo momento un volano motivante”, dichiara Mauro Russo Rouge.
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