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Cultura

Al Mau la mostra di Diego Bonelli e Leardo Sciacoviello si chiama àmmazzàti _ ammazzati

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Venerdì 8 novembre 2019, dalle 18.30 alle 21.30, presso la Galleria del Museo d’Arte Urbana, via Rocciamelone 7 c Torino, inaugurazione della mostra di Diego Bonelli e Leardo Sciacoviello “àmmazzàti_ammazzati”, a cura di Daniele D’Antonio e Edoardo Di Mauro.
Fino al 3 dicembre su appuntamento 348 4500461 335 6398351
L’evento è inserito nel cartellone di Contemporary Art Torino + Piemonte 2019
Sostenitori istituzionali : Regione Piemonte, Compagnia di San Paolo, Fondazione CRT, Circoscrizione 6 Comune di Torino, Comune di Torino Settore Tempo Libero
Sponsor tecnici : OIKOS Colore e Materia per l’Architettura, Fiammengo Federico srl

Il rapporto dicotomico tra “presenza “ ed “assenza” diviene centrale nel dibattito artistico a partire dall’immediato secondo dopoguerra.

L’Informale, la prima corrente diffusa su di una scala ampia che non si limitava all’ambito occidentale, si manifestò con le modalità di un linguaggio aperto al mondo ed all’esperienza, in un rapporto di coinvolgimento e di transazione con l’ambiente che intendeva andare oltre lo schematismo interiore di buona parte delle avanguardie storiche, tendente a sfociare in una rigida geometria delle forme.

Inevitabile, preparata da un secolo abbondante, la fuoriuscita dell’espressione artistica dal sito tradizionale della bidimensione, con relativa invasione spaziale dell’ambiente, tipica di parte della stagione Pop e, per intero, di quella del Concettuale, sia nella versione “mondana”, Land Art ed Arte Povera, che in quella tautologica e rigidamente mentale caratterizzata, tra gli altri, da gruppi come Art & Language e singole personalità come Sol Lewitt e Joseph Kosuth.

La smaterializzazione progressiva dell’opera e la quasi sparizione del livello iconografico, determinarono la crisi del Concettuale, ormai condotto alle sue estreme conseguenze, e l’ingresso nella successiva stagione, caratterizzata dal ritorno della manualità pittorica dapprima e, successivamente, da una lunga fase di citazione degli stili e delle tendenze caratterizzanti l’intero corso del Novecento, sullo sfondo di una società permeata dall’invadenza tecnologica e mediale.

Il tutto non casualmente incorniciato in uno scenario sociale palesemente di passaggio e mutazione. L’essere entrati in maniera decisa e definitiva all’interno di quella contemporaneità più volte annunciata nel corso dell’ultimo secolo, a partire dalle prime applicazioni pratiche dell’elettromagnetismo nell’ 800, ha generato grandi aspettative ed altrettanto intense angosce.

Da un punto di vista artistico in questi anni si sono confrontati punti di vista differenti rispetto a quella che attualmente è una indubbia crisi del modello della “presenza”.

Ad esempio vi è la visione, sostanzialmente “apocalittica”, del culturologo francese Jean Baudrillard che, qualche anno fa, ebbe a sostenere come il ruolo dell’arte sia attualmente interamente assorbito dalla visualità della pubblicità e dei media, e che quindi la partita vada giocata interamente sul fronte dell’”assenza” ricorrendo alla poetica del frammento e del dettaglio, visto come esemplare “parte per il tutto” in grado di fornire ancora un senso all’esperienza visiva, o chi invece rinviene elementi di maggiore speranza riproponendo la “presenza” nei termini di una insolita alleanza tra i miti arcaici, le simbologie religiose della premodernità con la realtà futuribile delle nuove tecnologie, in una civiltà, la nostra, dove è necessario, ormai, dare per scontato come la cultura del Logos sia stata sostituita da quella dell’immagine e ci si incammini in direzione della costruzione di una nuova estetica, dove il confine tra arte e vita è ormai sempre più ravvicinato. Quindi la fatica ed il malessere nell’essere presente esiste ma può essere superato ponendosi l’obiettivo di costruire nuovi progetti all’interno di un’esistenza che è ormai radicalmente mutata.

Diego Bonelli e Leardo Sciacoviello riflettono con estrema consapevolezza su temi affini a quelli delineati nella precedente introduzione, realizzando un allestimento dove il rigore concettuale non è citazione fine a se stessa, ma progetto mentale consapevole, illustrato nell’oggettività e nella precisione dell’allestimento.

Vengono indagati aspetti di estrema attualità: la dispersione qui rappresentata non è soltanto quella fisica ma, con altrettanta forza, viene rivisitata la mancanza di etica, rispetto e sensibilità che caratterizzano i comportamenti dell’uomo contemporaneo.

I lavori degli artisti aiutano i visitatori a riflettere sulla vacuità della nostra società, affrontando e interpretando dal loro punto di vista quello che spesso diamo per scontato, ma che forse non esiste quasi più per il genere umano: la presenza dell’altro.

L’originale titolo “àmmazzàti _ ammazzati” è un gioco di parole che verte sul concetto di morte come ribellione virtuale e strumento di riscatto nei confronti della dispersione e frammentazione dell’Io nella società liquida dell’eterno presente.

Il tema viene sviluppato dai due artisti secondo modalità da loro concordate sul piano di una progettualità e di una sensibilità comuni , ma con declinazioni diverse.

Diego Bonelli si assume l’onere di riflettere sul termine “àmmazzàti”.

Questa parola assume un rilievo polisignificante e conduce il suo rilievo critico nei confronti della massificazione telematica e nella prevalenza del brand , in una dimensione sociale dove l’immagine virtuale prevale nettamente sul Logos.

In questo caso la morte viene vista come annullamento nell’identità digitale, condizione dalla quale bisogna svincolarsi per invertire i termini della comunicazione ed assumerne il controllo.

L’allestimento prevede l’affissione di un manifesto di 2 metri per 1 con alla base una risma di volantini contenenti il testo di un manifesto dove, con affermazioni secche e perentorie, si proclama la necessità di un suicidio digitale.

Abbiamo poi l’installazione a parete di una scheda “Arduino”, progetto open source con la quale si fanno muovere a comando dei dispositivi , in questo caso matrici Led, che scorrono fino a portare ad una data che segna il momento del suicidio digitale, tramite un virus che adopera lo stesso linguaggio del nemico per ingannarlo e distruggere il sistema.

In ultimo una lastra in alluminio anodizzato che riprende misure e materiali di quelle collocate sulle sonde per esplorazioni spaziali Voyager e Pioneer, con riportate sotto forma di algoritmo le operazioni necessarie per l’approdo al desiderato annichilimento dell’identità digitale.

Nella dialettica dei termini Leardo Sciacoviello per “ammazzati” dispiega la sua carica ironica e la sua maestria nella realizzazione di installazioni oggettuali ed opere tridimensionali, armi con le quali nel recente passato ha prodotto opere in grado di denunciare vicende di grave impatto sociale.

In mostra Sciacoviello pone in essere una riflessione analogica sul post mortem con due gruppi di opere.

Il primo, dal titolo “Contro gli eroi”, è una analisi su due personaggi simbolo della storia del fumetto del Novecento come Batman e Robin, la cui epopea è riletta a partire dalle considerazioni loro dedicate da Umberto Eco nel celebre saggio del 1964, “Apocalittici ed Integrati”.

Se nella loro prima apparizione, datata ormai circa settantacinque anni, i due super eroi, agli albori della società di massa ed in una fase in cui, al termine della Seconda Guerra Mondiale, l’America, dopo la sconfitta del Nazismo e la necessità di arginare l’invadenza del blocco sovietico, era assurta ad una indiscussa leadership mondiale, incarnavano i valori di apertura e tolleranza della nazione statunitense, argine al male di qualsiasi provenienza, negli ultimi tempi la figura di Batman è stata narrata, in film di grande tono ed impatto, ed in serie televisive, nei suoi aspetti dark e decadenti, ampio spazio è stato concesso a personaggi “neri” come il Joker ed il Pinguino, e la figura, un po’ ambigua, del “bravo ragazzo” Robin, messa in disparte.

Batman e Robin hanno finito il loro ciclo, sono ormai vulnerabili.

L’artista li rappresenta metaforicamente appiattiti nella narrazione delle loro gesta, schiacciati e resi alimento dal rullo di una macchina per la pasta, digeriti dall’assuefazione della massa, ormai insensibile alle loro virtù.

In “Natura morta” Sciacoviello rielabora al presente il celebre genere moderno, apponendo tatuaggi ispirati alla nota collezione di Antropologia Criminale di Cesare Lombroso, su oggetti di uso comune realizzati con gomme siliconiche tinta carne come un bavaglio, un guanto, una ciabatta ed una teiera.

Anche in questo caso, come negli altri trattati in mostra da lui e Bonelli in diversi modi e maniere, la critica è verso l’omologazione massificata, che ha confinato un simbolo di devianza ed alterità come il tatuaggio, in uno dei tanti dispositivi di riconoscibilità sociale.

Edoardo Di Mauro, ottobre 2019

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