Cultura
Ibridazioni, tra pellicola e pixel al Mau per FO.TO. 2019
Nei testi da me dedicati in anni recenti alla fotografia ho costantemente sottolineato come questa, nell’ultimo trentennio, si è avvalsa a mo’ di viatico della disinibizione formale cifra stilistica del postmoderno per riversarsi massiccia nel suo panorama eclettico privilegiando la funzione piuttosto che l’oggetto e diventando, negli anni ’80 ma ancora di più nel decennio successivo, la dimensione narrativa maggioritaria, in compagnia di quello che è stato il suo primo derivato tecnologico, il video. L’atteggiamento si è manifestato nella duplice accezione di una partecipazione “fredda”, tendente a privilegiare una classificazione impersonale ed asettica dell’esistente e della banalità quotidiana, ed un’altra dimensione “calda”, “psicologica”, in cui gli artisti hanno adoperato il mezzo come estensione del proprio io, per calarsi nel reale con atteggiamento di affettuosa partecipazione. Negli anni ’80 il nuovo uso della fotografia è stato consono al clima di rinnovato individualismo dell’epoca, mentre nel decennio successivo abbiamo assistito per molti aspetti ad un proseguo nell’uso di queste modalità formali, per altri ad una ripresa di valori di documentazione del reale neo concettuali spesso insinceri e forzati.
In questa prima parte del nuovo millennio la fotografia, ed il video, paiono sempre più indirizzarsi verso percorsi autonomi in cui la narrazione, particolarmente per quest’ultimo, assume un rilievo non più minimale ed asciutto, ma orientato verso un taglio “cinematografico.”
Questo interessante progetto , inserito nel cartellone di FO.TO. 2019, intitolato significativamente “Ibridazioni. tra pellicola e pixel” mi induce a riprendere e riportare quanto scrissi, due anni e mezzo fa, per presentare due dei protagonisti della mostra e del correlato workshop, Armando Riva e Roberta Toscano, in quanto di estrema pertinenza :
“La pratica della rappresentazione artistica intesa come mimesi naturalistica, ed il conseguente predominio della pittura, entrano in crisi proprio a partire dall’invenzione della fotografia nella prima metà dell’800, e con queste l’aura dell’opera d’arte, che aumenta, anche grazie all’avvento del cinema, il proprio livello di esponibilità, passando dalla dimensione rituale a quella politica, come acutamente osservato da un testo profetico quale “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, di Walter Benjamin. Inizia da allora, e prosegue lungo il crinale novecentesco, quello che alcuni teorici ebbero a definire un vero e proprio “combattimento per un’immagine”, una tenzone tesa a stabilire il dominio sulla riproduzione del reale, con gli Impressionisti, ultima eroica propaggine della modernità, primi a scendere in campo per sfidare la tecnica fotografica nell’impari cimento della rappresentazione oggettiva del dato naturale. In realtà si tratta di un combattimento privo di senso e teso, semmai, a raggiungere un pareggio, una sostanziale pacificazione, come appare evidente analizzando le vicende del Novecento, ma anche quelle dei giorni nostri.
Argomento sostenuto da uno dei più preparati storici della fotografia, Claudio Marra, con una tesi che mi sento di condividere. Per Marra in realtà solo in parte la fotografia è stata un prolungamento della pittura con altri mezzi, più semplici ed immediati, al punto, in certi casi, da non richiedere neppure una particolare preparazione e professionalità nell’uso dello strumento, adoperato come una vera e propria protesi. La fotografia è dotata di uno statuto linguistico proprio e di un diverso livello referenziale nella rappresentazione della realtà, tali da apparentarla, semmai, alle modalità “extra – artistiche” introdotte nella teoria delle avanguardie storiche, e portate a piena diffusione tra gli anni ’50 e ’70 del secolo scorso, con la fuoriuscita dell’arte dal tradizionale alveo bidimensionale tipico della pittura, per procedere verso una contaminazione con l’ambiente intesa come piena omologia con il mondo, nel perseguimento di una esperienza estetica, quindi multisensoriale e totalizzante. ”
Lo stesso Marra ha posto in essere, non molti anni fa, una riflessione arguta sul dualismo analogico/digitale, giungendo a delle conclusioni non definitive ma certo illuminanti.
Citando l’autore : ” “Lo scontro allora, bisogna infine dirlo, non è tra vecchi cultori del sistema fotochimico e nuovi adoratori del digitale, bensì tra esponenti di due modelli di pensiero perennemente in contrasto fra loro: quello della presenza e quello dell’assenza. Uno scontro, insomma, tra chi ritiene comunque inaccettabile la rinuncia a una qualche forma di riferimento al reale […] e chi invece pensa di poterne fare totalmente a meno, muovendosi solo per linee interne ai linguaggi.”
Sintetizzando la tesi di fondo di Marra, che mi sento di condividere, si affratella elettivamente alla nota disputa tra “apocalittici” ed “integrati” così opportunamente stigmatizzata da Umberto Eco nei primi anni Sessanta, agli albori della comunicazione tecnologica. Il passaggio tra analogico e digitale non determina la morte del primo, in virtù della apparente maggiore facilità di uso e di diffusione del secondo
Accanto .ai fautori dell’analogico, visto ed esaltato, anche con nostalgia post romantica, per la sua dimensione artigianale, si contrappongono i sostenitori del digitale.
Questi ultimi sostengono che, grazie a questa evoluzione tecnologica, si sia risolto un problema a monte, che impediva alla fotografia analogica di manifestarsi come vero e proprio linguaggio.
Il problema consisteva nel legame della fotografia storica con la dimensione del reale, l’impossibilità di mentire che caratterizzava l’analogico, la ridotta possibilità di intervenire sul dato oggettivo della rappresentazione.
In realtà, a partire dalle avanguardie storiche, la fotografia tradizionale ha introdotto tecniche di manipolazione , soprattutto in ambito Dada e Surrealista, che il digitale ha solo agevolato. Dall’altro verso l’analogico era visto come custode della memoria. Ma con il digitale questa possibilità di archiviazione dell’immagine si è decisamente amplificata.
Considerando anche che, da un punto di vista formale e percettivo, siamo ancora ed inevitabilmente all’interno di una schema di inquadramento quadrangolare dello spazio, constatiamo che il problema in realtà non si pone, se non nei termini di un grande ampliamento delle possibilità e della velocità di riproduzione del reale, al di là della sua successiva manipolazione.
Inoltre l’ingresso nella dimensione post moderna ha di fatto interrotto la vettorialità dell’avanguardia,, sostituendo alla uniformità delle varie evoluzioni linguistiche l’eclettismo.
Quindi il mantenimento e la cura nel preservare la tradizione analogica, sempre foriera di conferme e sviluppi, può benissimo allearsi con la predisposizione manipolatoria del digitale, dando vita a quelle stimolanti “ibridazioni” oggetto di questa mostra.
La ricerca che Cinzia Ceccarelli, Costarocosa, Guido Salvini, Armando Riva e Roberta Toscano sviluppano parte dalla fotografia analogica, dalle sue tecniche e dai suoi strumenti, per arrivare alla manipolazione digitale delle immagini, tale da ampliare l’orizzonte del senso.
Cinzia Ceccarelli elabora fotografie d’epoca in bianco e nero, tipiche della fase in cui il nuovo linguaggio non si era ancora evoluto in una dimensione autonoma, fungendo da surrogato della pittura per un pubblico piccolo borghese, per stigmatizzare, in questo caso con ironia agrodolce, la precarietà e l’ipocrisia delle relazioni umane, specie quelle che dovrebbero essere tutelate da vincoli di lealtà reciproca. Costarocosa propone un progetto che nasce dal casuale ritrovamento di un visore stereoscopico a colonna dei primi del ‘ 900 in una casa nella campagna piemontese, a Masserano, dove lo spettatore potrà assistere ad una visione spiazzante di immagini stereoscopiche d’epoca, perlopiù scene campestri o paesaggi cittadini, mescolate ad altre artefatte ed inquietanti, realizzate dagli artisti tramite la manipolazione digitale. Guido Salvini presenta il suo progetto “Darkroom waste and corrosion”, una ricerca sulle componenti della fotografia e sull’effetto manipolatorio del tempo. Le sue sono foto dei materiali di scarto della camera oscura, ritratti all’interno del cestino del laboratorio di sviluppo e stampa, dove gli acidi generano sulle carte erosioni, macchie e colori, in una dimensione invertita rispetto all’assemblaggio di oggetti di recupero che ha caratterizzato una ampia parte dell’avanguardia novecentesca. Armando Riva propone un lavoro centrato sulla passione per le macchine fotografiche Lomo, singolare ibrido tra tecnica analogica e prassi digitale. Le Lomo sono apparecchi fotografici progettate in Russia, a San Pietroburgo, ritrovate casualmente da due studenti austriaci in un mercatino all’inizio degli anni Novanta. Caratteristica di questi strumenti la piccola dimensione e l’obiettivo, in grado di fornire immagini estremamente sature. Caratteristica ulteriore l’uso bulimico della Lomo da parte degli appassionati del dispositivo, che ne fanno un vero e proprio prolungamento di se, una registrazione continua di fatti ed eventi che dovrà poi passare al vaglio della camera oscura. Infine Roberta Toscano , che ha tenuto uniti i vari filoni di ricerca di “Ibridazioni” , presso la cui galleria-studio si terrà l’esposizione ed il workshop, presenta un reportage digitale sul casuale e fortunato ritrovamento del visore stereoscopico.
Edoardo Di Mauro, aprile 2019.
Iscrivi al canale Quotidiano Piemontese su WhatsApp, segui la nostra pagina Facebook e continua a leggere Quotidiano Piemontese