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Un condannato per il processo ai No Tav scrive: Non sono pentito, Ne è valsa la pena.

Redazione Quotidiano Piemontese

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Il sito Notav.info ha pubblicato la lettera di Jacopo, attivista No Tav condannato a due anni di carcere dalla corte d’appello del Tribunale di Torino per i fatti del del 27 giugno e del 3 luglio 2011. Jacopo è un ricercatore della Facoltà di Fisica di Torino, ai domicialiari dal mese di marzo 2016.

Alla fine si è chiuso l’appello del maxi-processo ai No Tav e mi ritrovo con una condanna a due anni a cui si andrà ad aggiungere una somma di denaro più elevata del reddito annuo della maggior parte delle persone che conosco. C’è chi ha avuto condanne più pesanti, chi meno e chi è stato assolto (a dir la verità pochi). Hanno detto che andavamo condannati perché non abbiamo mostrato segni di pentimento. Di conseguenza non si sono neanche impegnati granché a dimostrare quali siano state effettivamente le nostre condotte materiali. I fatti sono stati sostituiti dai fantasmi: l’opposizione ad una decisione dello Stato (presa da chi? Quando? chi è lo Stato?), il pericolo di escalation di violenza a.k.a le FARC in Val Susa (…), la Libera Repubblica della Maddalena, pericolosa perché “territorio sottratto al controllo dello stato”. Il maxi-processo è stato caricato più che altro di valore simbolico e politico: andavamo condannati per intimorire, per dimostrare a tutti che ribellarsi non è consentito – o, almeno, non tanto da rischiare di cambiare effettivamente le cose. D’altronde, con il TAV, non si parla di bruscolini, ma di miliardi di euro di denaro pubblico da spartirsi: non è un tema su cui vogliono che una popolazione determinata e ben informata possa mettere bocca.

Non mi sono pentito – non ci siamo pentiti – di niente. Se ripenso alle due grandi giornate messe sotto accusa durante questo processo, se guardo al passato, al presente e al futuro del movimento No Tav non posso che essere orgoglioso di averne condiviso una parte, anche quando diventa più difficile. Perché è proprio questo che ha dato veramente fastidio ai magistrati, ai politici e tutta la banda loro. Avrebbero voluto insegnarci, con anni di carcere, chi tra di noi è tra i cattivi (e i cattivissimi), chi tra i buoni. Eppure noi ci riconosciamo tra pari in una comunità in lotta, saldando dei legami che sono più forti delle loro condanne. Avrebbero voluto insegnarci a badare ai fatti nostri, a pensare esclusivamente alla nostra sopravvivenza individuale, a non alzare lo sguardo oltre la fatica quotidiana di sopravvivere tra lavoro e sfighe varie, a rimanere atomi solitari in competizione tra di loro. Perché le decisioni, quelle che influenzano la vita di tutti, le prendono altri, possibilmente senza discussioni. Eppure abbiamo scoperto che, insieme, possiamo mettere in crisi quei meccanismi del potere che siamo stati abituati a subire nell’impotenza. Abbiamo scoperto la bellezza e la profonda dignità di mettere il nostro tempo, le nostre capacità e, all’occorrenza, la nostra libertà al servizio di qualcosa più grande di noi: qualcosa che va costruito insieme, qualcosa per cui bisogna lottare.

Questa condanna me la porterò con orgoglio e dignità. Ne è valsa la pena.

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