Cultura
Perchè i matti, intervista con Diego Finelli
Uscito per Neos Edizioni con la firma di Diego Finelli, Perchè i matti è un veloce e molto interessante racconto lungo ambientato nell’ex manicomio di Collegno, uno dei luoghi più affascinanti (e inquietanti) della nostra regione.
Qui si trova a prestare servizio civile il giovane Antonio, che scoprirà un mondo del tutto particolare. A stretto contatto con gli ospiti e le loro manie e con chi in quel posto lavora (e non è un lavoro facile). Perchè i matti è in realtà un giallo, perchè c’è un delitto da risolvere, ma quel che conta è scoprire un mondo spesso tenuto nascosto e che invece l’autore ci presenta senza fronzoli e senza timore.
Qui trovate la recensione del libro.
Diego Finelli ha risposto ad alcune nostre domande.
Un racconto che ci porta in un luogo affascinante e inquietante, come nasce Perchè i matti?
Perché i matti nasce dall’esperienza che ho fatto ormai venti anni fa nei padiglioni e sotto i portici dell’ex manicomio di Collegno. Facevo il servizio civile in un ex reparto, ancora gestito dall’asl, in cui vivevano una ventina di persone, tutte ormai piuttosto anziane, con un passato di vera e propria reclusione tra le mura dell’ospedale psichiatrico e un presente sospeso in una specie di limbo: il muro attorno al parco non c’era più da anni, le porte non erano più sbarrate, ma solo alcuni di loro andavano e venivano più o meno liberamente; gli altri aspettavano e continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, tra gli psicofarmaci, gli infermieri, i pasti distribuiti in batteria, le sigarette un via l’altra, le docce fredde al mattino, le televisioni accese nella sale comuni.
Durante i mesi di servizio civile ogni tanto prendevo appunti, per cercare di non dimenticare le storie e le persone che avevo la fortuna di incontrare. Dopo qualche anno, a partire da quelle storie e da quei luoghi, ho provato a costruire un romanzo che restituisse almeno un po’ delle emozioni provate in quel periodo e che ricordasse qualcosa di quelle vite così sospese, così fuori dal mondo, che ai miei occhi erano impregnate di fatica e sofferenza e nello stesso tempo di sconclusionata, paradossale e malinconica allegria.
Per raccontarci questa storia hai usato uno stile molto particolare, una prima persona che mi sembra molto adatta ad un monologo teatrale. Perchè questa scelta?
Forse più che una scelta è stata una scoperta. A un certo punto, prima da lettore e poi provando a scrivere, ho scoperto che si poteva raccontare qualcosa anche in questo modo che a me veniva così naturale: le sgrammaticature, le ripetizioni, gli intercalare della parlata orale, i dialoghi poco elaborati, le divagazioni e il fatto di rivolgermi, a volte, direttamente a qualcuno come se gli stessi parlando in quel momento o come se stesse leggendo in tempo reale quello che scrivevo. Con questi strumenti sono riuscito, almeno per me, a scrivere il racconto, un po’ inventato e un po’ no, di qualcosa che per me è stato bello e importante e a dare una forma a questo racconto, che fosse fruibile senza risultare, credo, pesante. Anche se parla di vite di reclusi e di sofferenze difficili da capire e da spiegare. Un’amica che lo ha letto ne ha dato una definizione che mi è piaciuta particolarmente: leggerlo, mi ha detto, è stato come bere un bicchiere di acqua gasata fresca.
Perchè hai scelto il giallo per raccontare il manicomio?
Avevo bisogno di una chiave, di una traccia narrativa che tenesse insieme le storie che volevo raccontare: non so se ci sono riuscito, ma la trama gialla, l’indagine, volutamente sfumata e dilettantesca, mi sembrava un buon modo, un buon pretesto, per osservare i personaggi e l’ambiente che volevo raccontare. Non mi interessava, infatti, scrivere un reportage o un romanzo d’inchiesta.
Qual è la situazione in Italia oggi di quelli che erano considerati “malati di mente” e cosa c’è oggi a Collegno nelle strutture dell’ex manicomio.
Sinceramente non ho più esperienze dirette: sicuramente continua a esserci solitudine, abbandono, sofferenza, pregiudizio attorno a chi vive il disagio psichico, anche se i grandi ospedali psichiatrici non ci sono più. A me piace pensare, però, anche alla creatività e alla stralunata allegria che spesso accompagna queste persone.
A Collegno ora ci sono molte cose: un bel parco, dove d’estate vengono organizzate rassegne musicali e eventi culturali, dove la gente va a correre e passeggiare; poi c’è la sala consigliare del Comune di Collegno, un teatro, la sede di associazioni, un bagno turco, qualche locale, gli uffici dell’Asl, la sede dei Vigili Urbani, cose così. E ci sono anche, purtroppo, numerosi edifici abbandonati.
La domanda con cui concludo sempre le interviste. In una eventuale trasposizione cinematografica del libro, quali attori vedresti bene nei ruoli dei tuoi protagonisti? (è un gioco, lascia libera la fantasia)
Questo romanzo, in realtà, è già andato vicino a diventare un film prima ancora che un libro, grazie all’interesse del regista torinese Daniele Gaglianone: per ora non se ne è fatto nulla, ma magari in futuro se ne potrà riparlare. Se capitasse, mi piacerebbe vederci dentro, a fare i matti e gli infermieri, gli attori che hanno già lavorato con Daniele: Pietro Casetta, Francesco Lattarulo, Valerio Mastandrea, Filippo Timi. Il maresciallo dei carabinieri: Enzo Catania. L’infermiera carina: Giovanna Mezzogiorno. Il giovane obiettore lo farei fare a Jacopo Antinori, il protagonista di Io e te, di Bertolucci, perché mi ricorda mio figlio.
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