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A tu per tu con una pet therapist per capire come si lavora con gli animali contro le malattie
Pet therapy, ovvero zooterapia, pratica sempre più diffusa basata sull’interazione uomo-animale. Nata in Usa negli anni Cinquanta ad opera dello psichiatra Boris Levinson che, per caso, mentre lavorava con un giovanissimo paziente, si accorse che il suo cane, presente alle visite, rendeva più dolci e piacevoli le sedute aiutando il piccolo a rapportarsi con il mondo esterno. Da qui in poi, il passo non è stato così breve e così semplice, visto che solo nel 2003 questa pratica è riconosciuta dal Ministero della Salute. Ma vediamo più da vicino, con la collaborazione di Patrizia Fossati, pet therapist di Tortona che da anni opera nel settore, di cosa si tratta e in che modo viene usata a Santena, nella struttura sanitario-assistenziale “Anni Azzurri” dove soggiornano persone con disabilità varie, in stato di minima coscienza e vegetativo a causa, ad esempio, di lesioni cerebrali.
In che modo si lavora con i cani pet therapist?
“Di solito lavoro con due cani alla volta, non oltre. In collaborazione con fisioterapisti e direttore sanitario di “Anni Azzurri” abbiamo attivato un programma per aiutare i ricoverati a interagire, a restare in contatto con il mondo attraverso i cani, nello specifico un bel labrador femmina di nome Dorothea, per gli amici, quindi per tutti, Thea. A volte ci supporta anche una meticcia di nome Bimba. Come un gioco, visto che per gli animali si tratta di questo, i cani si avvicinano alle persone degenti e si lasciano accarezzare lentamente. Il paziente avvicina la mano al pelo dell’animale e, se non può, viene aiutato a farlo. In questo modo, con dolcezza e pazienza, si crea un rapporto che prosegue nel tempo, per la durata dell’attività. Niente è forzato”.
Come si nota un beneficio in un paziente in stato di minima coscienza?
“Da piccoli gesti. Bisogna fare attenzione ad ogni movimento del viso, ad esempio se la persona alza gli occhi al cielo e poi li abbassa per dare un cenno, una risposta, per dire che c’è, se esce dal proprio stato di apatia, di torpore comunicando in qualche forma”.
Come vengono addestrati i cani?
“Innanzitutto diciamo che non esiste una vera e propria razza di preferenza per la pet therapy anche se spesso si usano i labrador per la loro indole. Gli animali devono essere docili, non mordaci, non stressati, giocosi. Per loro, questo lavoro deve essere un divertimento per trasmettere serenità al paziente. Sin da cuccioli vengono scelti alcuni cani, con le caratteristiche descritte, ed educati al rapporto con gli altri, ma si utilizzano anche cavie peruviane e gatti. Dipende tutto dal loro carattere”.
In che modo sono selezionati i pazienti da sottoporre a pet therapy?
“Noi terapisti interveniamo quasi sempre nei casi più gravi. Ad esempio se operiamo con gli anziani ospiti delle Rsa (Residenze sanitarie assistenziali) veniamo chiamati per dare supporto ai casi di demenze (senili e/o Alzheimer) allo stadio avanzato. I pazienti vengono selezionati in collaborazione con l’equipe medica che opera nella struttura e che quindi li conosce e sa cosa richiedere. La nostra esigenza è comunque di avere gruppi omogenei e non superiori alle 8 persone. Ci riserviamo una ulteriore valutazione nei primi due incontri per capire se può nascere una relazione ospite/animale”.
Ci racconta una seduta?
“L’ambiente come quello della struttura di Santena è un reparto “duro”, di enorme impatto, che ti mostra l’altra faccia della realtà, del destino sempre in agguato. Qui ci sono vittime di incidenti stradali e sul lavoro e quelli colpiti da ictus o aneurismi. Qui arrivo con le mie “ragazze” Bimba e Thea insieme a tutti gli altri del centro Pet Therapy. Quando Bimba, Thea, Maggie, Ugo e Rosi arrivano nella reception della residenza, i pazienti in grado di interagire con l’animale, i parenti e il personale sono già pronti a coccolarli. Poi ci avviamo verso la sala dove, per due ore circa le nostre cooperatrici si fanno coccolare dai due gruppi di lavoro. E si inizia. Pr ognuno di loro ci sono momenti dove i nostri cooperatori si fanno accarezzare, spazzolare, premiare. Si gioca, si ride e ci si diverte tutti insieme. L’emozione di avere un amico da coccolare, un muso morbido che ti annusa, una zampa che ti cerca, una lingua morbida che ti aiuta ad aprire una mano, a fare un movimento con il corpo è la vera soddisfazione per i cani che non vedono la disabilità ma solo la persona.
Quando la terapia è finita riponiamo tutti gli ‘attrezzi’ che servono al lavoro dei nostri quattro zampe, come la coperta che copre i tavoli sulle carrozzine e dove le “ragazze” si accomodano per permettere ai pazienti di accarezzarle. Si prende il borsone e, fianco a fianco, animale e umano, ci si avvia verso l’uscita, salutati anche dai parenti dei pazienti che attendono nell’atrio e dal personale della residenza. Fuori la residenza c’è il giardino: è il momento di tornare a fare i cani e a scatenarsi!”
In media, anche se nel lungo termine, quali benefici traggono i pazienti da questa pratica con gli animali?
“Nel progetto “Coccole per sorridere”, avviato a Santena, operiamo con un approccio che non guarda ad ogni costo alla rimozione del deficit, ma stimola il soggetto disabile ad attivarsi in modo autonomo per superare, spesso con fatica, l’opposizione causata dal deficit e ricercare la voglia di fare, di muoversi e di instaurare relazioni positive.
Importante è ricordare che la pet therapy è un’attività riabilitativa ed educativa di appoggio all’azione medica, attraverso l’impiego di animali domestici. Non sostituisce terapia o tecnica riabilitativa. Si pone come un potente strumento per facilitare quanto il riabilitatore e il medico specializzato si sono prefissati di raggiungere, per migliorare la qualità della vita delle persone disabili. Attraverso l’aiuto del cane si concorre in modo serio al raggiungimento di vari risultati: migliorare il grado d’attenzione, l’autocontrollo, l’autostima; potenziare il coordinamento e lo svolgimento di attività funzionali; far interiorizzare schemi interpersonali, di relazione, quindi con risvolti benefici nella socializzazione e quindi anche nella sfera affettiva.
Non guarisce, viste le menomazioni ma può migliorare in modo continuo e costante il loro quadro psicologico, fisico, affettivo, cognitivo e relazionale”.
Quando termina la terapia, in maniera definitiva, ovvero quando il progetto giunge alla fine, i pazienti soffrono la mancanza dei cani a cui, magari si sono legati?
“Noi non chiudiamo mai definitivamente i nostri progetti, anzi è nostra politica non “sparire” quando uno termina. Continuiamo ad esistere oltre che nelle foto, nei filmini e nei ricordi anche tornando spesso a trovare gli amici di Bimba e Thea. Quindi rimane in loro l’aspettativa di rivederci e condividere ancora vari momenti di gioia aspettando, magari una ripresa del lavoro con un nuovo progetto”.
Quali consigli può offrire a una persona che desideri diventare pet therapist? quanto dura il percorso formativo?
“Personalmente, la mia formazione è stata presso l’associazione Dog4Life Onlus. Seguo i protocolli operativi e tutt’ora collaboro con questo gruppo nell’istruzione di nuovi operatori. Si è da poco concluso, infatti, il primo corso per operatori in Piemonte tenuto in collaborazione con Dog4Life Onlus e “Anni Azzurri” dal quale sono già usciti 9 nuovi pet therapist. La preparazione non è solo del cane ma anche del conduttore, infatti si parla di “binomio”. Cane e conduttore devono essere un team di lavoro affiatato.
In Dog4 Life Onlus gli operatori e gli animali di pet therapy sono certificati e abilitati a questa attività solo dopo aver affrontato il corso, diviso in tre step formativi, ognuno di un fine settimana al mese con frequenza è obbligatoria. Tale corso è riconosciuto da Unicisc (Unione italiana consulenti e istruttori cinofili) e un esame finale, alla presenza di veterinari, istruttori cinofili e operatori di pet therapy di comprovata esperienza, attestano la professionalità e la competenza del conduttore e, al tempo stesso verificano il carattere, l’obbidienza, la salute e le cure igieniche dell’animale”.
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