Cittadini
Lavoratori over 50 sempre meno considerati dalle aziende
Poco considerati e apprezzati, un peso nella maggior parte dei casi, nonostante lavoratori esperti. E’ la fotografia degli impiegati aziendali over 50enni, scattata da un’indagine compiuta da Scs Consulting, società bolognese di consulenza professionale, in collaborazione con l’Università di Bologna. Secondo i dati raccolti, considerando, da un lato interviste a dirigenti del settore risorse umane e, dall’altro ai lavoratori stessi, gli over 50, specialist senior, ovvero impiegati che non siano dirigenti o quadri, sono visti come un fattore critico nelle imprese e non un vantaggio. Il 34% lavora nella pubblicaa (e nel cosiddetto non profit), il 25% nel mondo della finanza; il 20% nei servizi, il 18% nell’industria, il 14% nella Gdo, (Grande distribuzione organizzata). Un vero e proprio esercito di lavoratori qualificati ed esperti, probabilmente destinato a crescere alla luce degli attuali trend, sia demografici che previdenziali. Dall’analisi dei responsabili del personale (50, rappresentativi di aziende private e pubbliche, dalle banche alle imprese, dalla Gdo alla pubblica amministrazione) emerge che, sfatando un classico stereotipo, il lavoratore senior non è poi così fedele, altruista, disponibile a trasmettere il proprio know-how ai più giovani, né è troppo autonomo nel prendere decisioni.
Solo un direttore del personale su due (55%), per esempio, riconosce al lavoratore senior la fedeltà e la disponibilità a supportare i colleghi più giovani (53%). Mentre nemmeno uno su due (47%) ne riconosce l’autonomia decisionale. E addirittura uno su tre (33%) pensa che lo specialist ultracinquantenne sia più efficace degli altri lavoratori. Confermato invece lo stereotipo “negativo” di un lavoratore ultracinquantenne poco flessibile, poco adattabile e piuttosto ostile al cambiamento, persino poco propenso a usare le lingue straniere. Tutto questo si riflette sulle scelte pratiche delle aziende italiane.
I processi organizzativi a favore della rivalutazione dell’età sono infatti rare (li adotta 37% degli intervistati), e riguardano prevalentemente il trasferimento di know-how ai più giovani (53%). La formazione rappresenta solo il 29% delle aziende coinvolte dall’indagine, mentre l’outplacement il 23%. Solo il 17% dichiara di riprogettare i compiti e il ruolo degli over 50, mentre addirittura poco meno del 12% si impegna a favorire il dialogo intergenerazionale (avviene più nel settore pubblico e del non profit, sottolineandone quindi più le valenze assistenziali che non in chiave competitiva).
“I giudizi raccolti presso i responsabili delle risorse umane – sottolinea Cinzia Toppan, responsabile area people di SCS, e curatrice della ricerca – che si traducono poi in concreti atteggiamenti e scelte organizzative da parte delle aziende, incidono negativamente anche sull’autopercezione che i lavoratori hanno di sé. In altri termini, le opinioni in azienda sulla loro affidabilità, sulla adattabilità e produttività influenzano il giudizio che i lavoratori senior danno di sé stessi, finendo con inibire la loro capacità e la loro proattività, il loro impegno nello sviluppare progetti innovativi e sfidanti.
“Si ingenera, insomma, una sorta di circolo vizioso per il quale gli ultracinquantenni finiscono spesso con il sentirsi soltanto ‘sopportati’, con la conseguenza che spesso sono i primi a evitare qualsiasi coinvolgimento, fino a dedicare sempre meno tempo e importanza al lavoro. Al contrario, più la percezione da parte dei lavoratori è quella di sentirsi parte attiva e stimata più il loro impegno e la loro produttività aumentano, sentendosi più sicuri e motivati”.
La conferma di questa situazione viene dai diretti interessati, coinvolti dalla ricerca. Ovvero circa 800 specialist. Età media 53 anni.
“D’altra parte – conclude Toppan – l’esperienza dimostra come valga la pena di investire in queste risorse, specie per ‘rinforzare’ quei comportamenti attinenti all’ambito extraruolo che si rivelano spesso un fattore strategico per il successo di un’impresa. Da questo punto di vista, i lavoratori ultracinquantenni sono per natura disponibili ad aiutare i più giovani, non difettano certo di cortesia, tendono a ridurre i conflitti, a non richiedere forme di controllo e a rendere più attrattiva l’organizzazione. Tra l’altro, numerose analisi condotte a livello internazionale hanno dimostrato – se vogliamo restare nel solo ambito della produttività aziendale – essa aumenti con l’aumentare della percentuale di lavoratori nella fascia 40 – 55, sia per un loro minor carico di impegni famigliari sia per l’incremento di capacità”.
Dall’esame condotto da Scs emerge come l’attenzione sia rivolta principalmente verso la gestione degli spazi e dei tempi di lavoro, verso i programmi salute e benessere e verso le attività di recruiting, retention e re-employment. Risultano invece poco presidiate le aree relative al performance management, all’outplacement, all’innovazione nel disegno dei compiti ed ai piani di sviluppo carriera.
Per ciò che concerne poi nello specifico l’Italia, si nota un certo ritardo nell’implementazione di politiche inerenti l’age management, soprattutto in relazione a Paesi come ad esempio Germania e Singapore, che stanno invece affrontando con grande dinamicità le tematiche relative alla gestione dell’invecchiamento della popolazione aziendale. Responsabile di questo gap potrebbe essere il settore pubblico e del non-profit, che in Italia, a differenza di quel che avviene in altri Paesi, non sembra svolgere un ruolo chiave nella promozione dell’age diversity.
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