Cultura
Umberto Eco e “le bombe piazzate per distrarci”
“La censura si può esercitare in due modi. Tutti conosciamo la censura del silenzio, quella delle veline (no, non intendo le ragazze di Striscia la notizia. Mi riferisco alle disposizioni del partito fascista che prescrivevano ai giornalisti che cosa dire e che cosa tacere). Esiste però anche un’altra forma di censura, più subdola: è quella dell’eccesso di rumore”. Con la lucidità di chi sa osservare il presente dall’alto, Umberto Eco va dritto al problema: riesce in poche frasi a toccare un punto nodale della civiltà postmoderna. Parlando dal palco del Teatro Regio nell’ambito di Biennale Democrazia, il professore, introdotto da Gustavo Zagrebelsky, affronta un argomento di grande fascino: il ruolo della cultura tra memoria e oblio.
Non c’è bisogno di un grande semiologo per spiegarci che viviamo immersi nel rumore, sovrastati da un coacervo di voci discordanti. Eco parte da questo dato di fatto per sviluppare alcune considerazioni. Propone un esempio, volutamente iperbolico, com’è nel suo stile: “Se fossi coinvolto in uno scandalo e volessi distogliere l’attenzione pubblica, prima di tutto andrei a piazzare una bomba in stazione, così i giornali si occuperebbero della bomba e non di me”. E prosegue: “Chi sa quante bombe sono state piazzate per distrarci da notizie più importanti”. Scoppia l’applauso: l’allusione politica è troppo forte per passare inosservata. Eco sembra prendere in prestito la tesi di un suo celebre personaggio, Guglielmo da Baskerville: per nascondere bene un delitto bisogna occultarlo in mezzo ad altri delitti, dove la parola delitto può benissimo intendersi come notizia. “Quando si vuole soffocare un’informazione scomoda – fa notare lo studioso – la si annega in un mare di chiacchiere e minuzie, non necessariamente false, ma del tutto insignificanti”. E il silenzio diventa merce rara. Se tutti gridano si fa sempre più fatica a “captare i mormorii, i piccoli rumori, che per tanti secoli sono stati capaci di viaggiare di bocca in bocca”, come lungo i binari di una ferrovia invisibile. La posta in gioco è alta e grande il rischio di perdere per strada qualche tesoro prezioso: “pensiamo solo a certi bestseller, a come si sono diffusi unicamente grazie al passaparola”. Ecco perché, per sopravvivere in questo mare magnum, “bisogna imparare a scegliere, selezionare, buttar via”.
Eco tesse l’elogio dell’oblio consapevole. “I motori di ricerca producono bibliografie di sessanta pagine con diecimila titoli su ogni argomento, una mole di dati ingestibile per qualsiasi studente. Sarebbe importante insegnare ai ragazzi l’arte del potare, abituarli a distinguere tra le informazioni veraci e quelle superflue”. Dimenticare è un’azione vitale per ogni cultura, è l’unico modo per capire che cosa valga la pena conservare. “L’enciclopedia migliore è quella che sa rinnovarsi, che elimina da sé le informazioni non più utili, garantendo però agli specialisti la possibilità di recuperarle”. In certi casi, quindi, ben venga l’oblio. Ma attenzione, secondo Eco oggi abbiamo la smemoratezza facile: “I ragazzi passano la giornata tra mail, sms e social network, però non sanno più chi era Aldo Moro. Non parliamo poi dei parlamentari che alla domanda ‘Che cosa è successo il 17 marzo 1861?’ danno le risposte più fantasiose”. In sintesi tendiamo a “dimenticare ciò che dovremmo ricordare e ricordare quello che non serve”. Ma si può fare qualcosa? Esiste una soluzione? “Non lo so – risponde Eco – e se per caso lo sapevo, l’ho dimenticato”.
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