Cultura
Stralunato e tenero: il diario parlato di Paolo Nori
Pantaloni neri, maglia nera, Moleskine nero (sì, anche il taccuino fa parte dell’abbigliamento di uno scrittore): è così che Paolo Nori si è presentato al pubblico, ieri sera, in un reading al Circolo dei Lettori di Torino. L’intervento dell’autore ottemperava a una richiesta precisa. Con il ciclo Diari in circolo, ogni mese l’associazione culturale di via Bogino chiede ad alcuni scrittori di raccontare il presente in tutte le sue forme: personale e collettivo, pubblico e privato, Italia e Mondo. Paolo Nori ha fatto proprio questo: ha sfogliato le pagine di un diario. Naturalmente in un modo tutto suo.
Fluviale, ironico, malinconico, ingarbugliato, surreale: ecco il diario marzolino dello scrittore, indirizzato ai “42 presenti, ciascuno con la sua grammatica”. E’ un bizzarro memoriale che difficilmente potrebbe stare dentro una pagina di libro: per esistere pienamente ha bisogno della voce, ha bisogno di essere letto, detto, scandito (perché a tratti Nori versifica più che far prosa). Come immaginarselo senza ritmi e pause della cadenza emiliana, così evidente nella parlata di questo autore, un Parmense doc? Come pensarlo senza la pronuncia esatta di tutti quei nomi russi (Nori è uno studioso di slavistica), continuamente evocati? Ecco allora il reading, accompagnato dal pianoforte di Carlo Boccadoro.
L’irruzione del presente nella letteratura fa sempre un certo effetto, specie per chi è abituato a una tradizione italiana un po’ distante anche quando è contemporanea. Sorprende sentirsi raccontare della guerra in Libia (“guerra lampo, un’espressione hitleriana, mi sembra”), del disastro atomico di Fukushima, delle celebrazioni per i 150 anni dell’Italia. Ma nel racconto di Nori tutti questi frammenti di storia collettiva si sbriciolano perdendosi in un mare di piccole storie personali e quotidiane: le traduzioni dal russo, i sorprendenti pensieri della “Battaglia” (la figlia di sei anni), il citofono che suona, le scale da pulire, la primavera che arriva. C’è in questo scrittore una specie di ossessione autobiografica: la sua vita, i suoi fatti, il suo stralunato punto di vista sono sempre al centro. Ma è un’ossessione leggera, vissuta in modo ironico e senza narcisismi. Un altro emiliano, Guccini, ci ricorda che “è difficile far rumore sulle cose che hai ogni giorno”. Nori lo sa bene, sa giocare col quotidiano e prendersi in giro (memorabile la descrizione di lui che lavando i piatti si dice “come sono umile a lavare i piatti, io che ho pubblicato per Einaudi”, salvo aggiungere, un istante dopo: “ma sei deficiente?”). Lo scrittore riesce però anche a regalare momenti di profondità e tenerezza, come quando, sul finire dello spettacolo, parla del senso del sacro, del mondo che a volte si fa riconoscere: “è quando tagli il pane, quando a ventisei anni prendi per mano una ragazza in un campo di lucciole, o quando un giorno parlando ti accorgi che hai la voce del tuo babbo, morto da undici anni”. E su quegli “undici anni” la voce sembra incrinarsi, ma è un momento, un rapido istante che sfuma nell’applauso del pubblico. Poi c’è spazio solo per uno stravagante bis: una versione russa di Yesterday.
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