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Alla scoperta di Due Zoldani con Lucia Berardi

L’intervista con l’autrice

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TORINO – Ci sono libri che permettono di scoprire luoghi e tempi meno noti al lettore. Nel caso di Due zoldani, che Lucia Berardi ha pubblicato per Echos Edizioni, il lettore ignaro di quei luoghi e di quei tempi sono io.

Siamo nella valle di Zoldo, in Veneto, all’inizio del ‘900. Nina e Valerio sono giovani e davanti a loro si apre una vita fatta di campagna e produzione di chiodi (le attività tipiche della valle). I due zoldani però non sanno che il secolo che si è appena aperto porterà enormi cambiamenti in tutta Europa ed anche la loro valle ne sarà in qualche modo travolta.

Prima la guerra in Libia, poi l’occupazione austriaca e la Prima Guerra Mondiale, infine la Seconda Guerra Mondiale. Una rivoluzione totale. In questo scenario si muovono i due protagonisti, che hanno la forza di reinventarsi continuamente, di seguire nonostante tutto i loro sogni (per quanto possibile). Nina diventerà esperta gelataia e madre, mantenendo un forte legame con la terra natia, pur viaggiando molto, moltissimo per l’epoca, da Belluno a Vienna a Torino. Valerio si lascerà travolgere dal secolo nuovo, dai neonati motori, dall’arte di Venezia, sperimenterà amori e passioni, diventerà esperto fotografo. Si ritroverà in Libia, a Venezia, a Torino…

Lucia Berardi ci regala una saga familiare appassionante, sbilanciata, attraversando 50 anni di un secolo in cui il tempo corre via veloce e le novità si susseguono accavallandosi con scoperte e tragedie. Il tutto corredato da una prosa davvero personale, con scelte rischiose ed estreme (come quella di non utilizzare le virgolette nel discorso diretto o di cambiare continuamente narratore e tempi del racconto) che tuttavia funzionano perfettamente.

L’intervista con Lucia Berardi

Ci presenti una vera e propria saga familiare che attraversa mezzo secolo. Come è nata questa storia?

Ho scoperto la Val di Zoldo molti anni fa, insieme a un amico, originario di quei luoghi per parte di padre. Questa valle poco conosciuta, in provincia di Belluno, pur avendo paesaggi bellissimi, dominati da cime dolomitiche come il Pelmo e il Civetta, era al di fuori dei grandi flussi turistici. Tra Ottocento e Novecento, i suoi abitanti, un tempo produttori di chiodi per la repubblica di San Marco, erano diventati gelatieri, incominciando a praticare una particolare emigrazione stagionale, soprattutto verso il nord Europa. Molte famiglie zoldane hanno raggiunto il benessere grazie a quest’attività, perciò, nei decenni passati, non vedevano nel turismo la risorsa principale.
Il padre del mio amico mi parlava spesso della sua esperienza di gelatiere in Germania negli anni ’60; inoltre mi raccontava le vicende dei suoi genitori, nati a Zoldo a fine Ottocento e giunti in Piemonte dopo la Prima Guerra Mondiale. Mentre lo ascoltavo, una storia incominciava a prender forma nella mia testa… Molti anni dopo ho pensato di scriverla.

Quello in cui è ambientato il racconto è un secolo di cambiamenti veloci, improvvisi e spesso drammatici. Come riescono due giovani di una piccola vallata ad attraversare quegli anni?

Tendiamo a pensare che gli abitanti delle vallate alpine, in passato, fossero totalmente isolati dal mondo. In parte è vero, ma anche allora non mancavano possibilità di spostarsi e fare nuove esperienze. I mestieri ambulanti, praticati oltre confine o in lontane città, potevano offrire occasioni di crescita e riscatto sociale: ciò si è verificato anche in Piemonte (in val Maira, ad esempio).
Le stesse guerre, pur col loro strascico di sofferenze e distruzioni, hanno favorito l’uscita dei montanari dall’isolamento. Durante la Prima Guerra Mondiale, molte donne, rimaste sole, hanno incominciato a esercitare ruoli maschili, sia in campo familiare che lavorativo.
Guerra e lavoro sono in effetti i motori del mio racconto. Inoltre, vi è il tema del desiderio, vissuto diversamente dai due protagonisti, di cambiare il proprio destino, superando rigide barriere sociali.

Ci racconti Nina?

Nina è una donna del primo Novecento, per certi aspetti ancora legata al secolo precedente.
È laboriosa, soggetta all’autorità maschile e dedita alla famiglia. Pur avendo molte doti personali, non è femminista né ribelle.
Presenta, tuttavia, alcuni elementi di modernità: l’ambizione la porta giovanissima a Vienna, dove spera di aprire una sua gelateria. Questo progetto si realizzerà altrove molto più tardi, e solo per un breve periodo, sufficiente a dimostrare il suo valore come artigiana e imprenditrice.
Nina ha idee molto chiare riguardo all’impegno lavorativo, ai doveri familiari, all’affetto per i figli.
Al contrario, tende a ingannarsi per quanto riguarda il rapporto col suo uomo.
Fin dal principio, a spingerla verso di lui non è solo amore: Valerio rappresenta un ideale di bellezza ed eleganza e, con la sua intraprendenza, sembra in grado di raggiungere traguardi impossibili. Accanto a lui, Nina sogna una vita brillante fuori dell’ambiente zoldano.
Una volta fatta la scelta, per orgoglio, non torna più indietro, anche se scopre i difetti e le debolezze del marito. Davanti agli altri cerca sempre di difenderlo, di farlo apparire migliore di ciò che è, anche quando non approva i suoi comportamenti. Gli resta fedele ad ogni costo, resistendo a molte prove. Il loro rapporto, tuttavia, non si nutre di condivisione, se non in rari momenti: Valerio ha “i suoi segreti”, che lei intuisce ma non osa indagare. Nel corso degli anni, si trova spesso sola, di fronte a gravi difficoltà dovute alla guerra e alle intemperanze del marito. Reagisce con coraggio, conservando il suo spirito indipendente anche da anziana.

E invece Valerio?

Ciò che m’intrigava di più, nei racconti che avevo sentito dal mio amico, era la figura del nonno, bellissimo e scialacquatore. In verità, ne avevo saputo pochissimo: aveva una cattiva fama e in famiglia non se ne parlava volentieri. Forse proprio per questo m’incuriosiva.
Grazie alla documentazione militare, ottenuta dall’archivio di stato di Belluno, ho scoperto che quel nonno sapeva guidare camion e motociclette, sicuramente lo fece durante la Grande Guerra.
Sulla base di queste suggestioni, ho costruito il personaggio di Valerio che, con le sue inquietudini, è forse il più “moderno” del romanzo. Valerio ha molte aspirazioni, non solo materiali, del tutto estranee al suo mondo (diventare un artista, circondarsi di agi e bellezza…)
S’illude di poterle realizzare grazie alcune doti innate, che in particolari circostanze gli permettono di farsi accettare in ambienti diversi dal suo.
Forse l’educazione avrebbe potuto coltivare i suoi talenti e i suoi aspetti migliori. Ma Valerio, privato da piccolo degli affetti familiari, resta un outsider, spesso vittima della sua presunzione e dei risentimenti verso il padre. Si considera superiore a Nina, di cui non ha la concretezza e la dirittura morale. La perdita dell’amico Marco – unico vero maestro, incontrato a Venezia – lo lascia alla deriva, senza guide e punti di riferimento. È un uomo insoddisfatto e confuso, anche rispetto all’orientamento sessuale: a ciò contribuiscono i condizionamenti della sua epoca.
Pessimo marito e genitore, negli anni della maturità cade nella dipendenza dal biliardo e dalle scommesse, che considera un facile mezzo per ottenere i suoi obiettivi.
Tuttavia, fino alla fine, conserva un certo scintillio, capace persino d’incantare una suora.

Sono tante le curiosità storiche e meno storiche legate a questo romanzo. Quella che mi incuriosisce più di altre è legata al mondo del gelato e della pasticceria sull’asse Zoldo-Vienna. Che mi dici sul tema?

Fu il padre del mio amico a parlarmi dei disagi legati all’attività dei gelatieri, peraltro remunerativa: si trattava di partire ogni anno a fine inverno, lasciando a casa i bambini, e tornare otto mesi dopo, in autunno. Un’esperienza difficile, nota a molti zoldani.
Zoldo era sempre stata una valle di migranti, perché vi era un problema di sovrappopolamento rispetto alla quantità̀ di risorse naturali disponibili. Questo si accentuò a fine Ottocento, quando entrò in crisi la produzione artigianale di chiodi e nella valle chiusero molte fucine.
Accanto al fenomeno della migrazione permanente – ad esempio verso l’America, che riguardava molte regioni italiane – qui si sviluppò una migrazione stagionale, finalizzata alla vendita di dolci e frutta caramellata, trasportata in appositi contenitori. Iniziarono a comparire, soprattutto nelle città dell’impero Austro-ungarico, i primi venditori ambulanti di biscotti e i primi carrettini dei gelati.
A dare il via a questo mestiere, che sarebbe poi durato per tutto il secolo successivo, furono all’inizio poche persone. Con una sorbettiera di gelato, si girava per le zone più affollate delle città, e pian piano, visti i guadagni, si invitavano amici, parenti e compaesani a fare lo stesso.
L’attività s’interruppe durante le due guerre mondiali, per riprendere con maggior intensità nel secondo dopoguerra. Intanto le tecniche di produzione del gelato si erano modernizzate e furono introdotti nuovi macchinari. Longarone diventò un centro importante di tale industria meccanica.
Fino agli anni ’80 del secolo scorso, molte famiglie zoldane e cadorine erano legate a questo mestiere ed emigravano ogni anno il 19 marzo. Rispettando una sorta di rito, in autunno tornavano al paese d’origine, unico luogo percepito come “casa”. Esisteva, infatti, un forte radicamento alla propria terra e un intenso legame tra compaesani.
Queste tendenze oggi si sono attenuate, anche se in val di Zoldo, in parte, persistono ancora.
Nel nord Europa esistono tuttora molte gelaterie zoldane o di tale origine.

Tra le innovazioni di inizio secolo che coinvolgono i due protagonisti ci sono i motori e la fotografia. Valerio le accoglie entrambe e probabilmente la prima gli salva la vita in Guerra…

Praticare la fotografia, per Valerio, risponde al desiderio di far parte del mondo degli artisti, che aveva conosciuto a Venezia. Come fotografo, in seguito, può ritrovare l’amico Marco in Libia, e questo dà una svolta alla narrazione.
Per quanto riguarda i motori, invece, lo spunto mi è venuto dai documenti militari, che riguardavano il nonno del mio amico. Nel foglio matricolare, avevo scoperto che quel giovane alpino – forse a causa dell’aspetto e dei modi educati – era stato l’attendente del suo comandante di battaglione.
Ho quindi inventato il personaggio di Tagliaferri, un torinese appassionato di gare automobilistiche, a cui si deve l’iniziazione di Valerio alla guida e alla passione per i motori.
Sia in Libia che durante la Grande Guerra, Valerio si occupa di logistica, di trasportare i feriti, scortare convogli o fare ricognizioni, perciò gli è risparmiata la trincea.
Motori e fotografia rappresentano per lui l’aspirazione a distinguersi e ad affermare la sua diversità rispetto al mondo nel quale era nato.

Come entrano Torino e il Piemonte in questa storia?

I due zoldani a cui mi sono ispirata emigrarono effettivamente in Piemonte come gelatieri: prima a Biella, dove nacque il loro terzo figlio, poi sul lago Maggiore, infine a Rivoli. Lui morì a Torino alla fine degli anni ’50, lei visse a lungo a Rivoli, quasi sempre da sola con i figli più giovani, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Avendo immaginato che il colonnello Tagliaferri fosse torinese, ho potuto ambientare alcune scene del romanzo anche nella Torino del primo ‘900. Valerio la visita per la prima volta con lui, durante il servizio di leva, in qualità di attendete-autista. Molti anni dopo, da sfollato, si ritrova nelle Langhe con il suo vecchio comandante, durante la guerra.
Mi piace ambientare le storie in luoghi che conosco bene, o sui quali mi sono documentata a fondo.
Il padre del mio amico mi ha raccontato molto su Torino e Rivoli, dagli anni ’30 al dopoguerra.

Una nota tecnica. Hai usato una prosa molto particolare, per esempio senza usare il virgolettato sui dialoghi. Come mai questa scelta anche rischiosa?

Come lettrice non amo molto il virgolettato, specie quando i dialoghi sono lunghi e frequenti. Tutto si complica con le didascalie, diventando a volte un po’ macchinoso.
Alcuni autori non usano virgolette o trattini – ad esempio Kent Haruf e Cormac McCarthy – e nei loro romanzi il parlato si integra in modo fluido con la narrazione.
In questo caso, tuttavia, bisogna fare molta attenzione perché non ci siano ambiguità.
Secondo me, questo non è un ostacolo, anzi, è un aiuto a costruire dialoghi più efficaci.

Cosa ti ha lasciato la scrittura di questo romanzo?

La stesura del romanzo, durata più di un anno, è stata preceduta da un lungo lavoro preparatorio.
Ho fatto ricerche e mi sono documentata sugli argomenti più vari che sarebbero entrati nel racconto, da come si viaggiava nel primo ‘900 alle armi usate in guerra, dall’arte di fare i gelati al gioco del biliardo. Ho letto diari e lettere di soldati al fronte, ho osservato fotografie d’epoca… Ho potuto scoprire cose che non conoscevo. Procedendo nelle ricerche, sono riuscita a “vedere” i personaggi nel loro contesto, e questo mi ha suggerito come farli agire e parlare.
Mi sono rimaste impresse alcune immagini molto forti, di luoghi e persone, che ho visualizzato prima di scrivere. Mi è rimasto l’affetto per i protagonisti: benché siano molto diversi da me, li ho frequentati così a lungo da sentirli miei amici.

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