Ambiente
Primark a Torino tra i dubbi sul cotone “sostenibile” e il rischio greenwashing (così come H&M, Zara e Decathlon)
L’analisi dei grandi marchi tra sostenibilità e greenwashing
TORINO – La multinazionale Primark, che ha aperto il secondo punto vendita a Torino, è “a rischio greenwashing” insieme ad altre multinazionali attive sul territorio piemontese (H&M, Zara, Benetton, Decathlon, Mango, C&A, Calzedonia): a dirlo è il report “Greenwash danger zone” di Greenpaeace, pubblicato nel 2023.
In questi giorni l’associazione ambientalista è presente anche al Salone del libro e, nel proprio stand, campeggia uno striscione che richiama questo tema: “Contro il greenwashing c’è l’inferno climatico”. Gli attivisti stanno distribuendo anche dei volantini in cui si fa cenno proprio all’insostenibilità ambientale della “fast fashion”.
Quotidiano Piemontese ha analizzato i cataloghi delle “big” dell’industria del fashion nei punti vendita piemontesi (ove disponibili), notando una scarsissima presenza di capi prodotti con materiale sostenibile. Iniziamo da Primark, ma prima facciamo chiarezza sui concetti.
L’accusa di greenwashing
Per “greenwashing” si intende “la pratica messa in atto per dare una falsa impressione degli impatti ambientali o dei benefici di un prodotto, che può trarre in inganno i consumatori”. Per difendersi da queste accuse Primark, azienda irlandese che fattura 6 miliardi l’anno, nel 2018 ha creato la linea “Primark Cares”, poi lanciata e implementata nel 2021. I 35 prodotti di questa collezione contengono cotone che deriva da fonti e processi lavorativi più sostenibili rispetto a quelli utilizzate per le altre linee di capi di abbigliamento Primark.
La linea “Cares” è legata al “Primark Sustainable Cotton Programme”, che ha l’obiettivo di formare (non obbligare) “oltre 299.388 agricoltori (soprattutto in India, Pakistan e Bangladesh ndr) su pratiche di coltivazione più sostenibili”. L’azienda miliardaria sostiene che il 55% delle “unità di abbigliamento” vendute contengano materiali “riciclati o comunque più sostenibili”.
Come spiega il Corriere della Sera però, i restanti capi continuano a contenere coloranti tossici a base chimica.
Greenpeace contesta a Primark (pagina 25) di non pubblicare le indicazioni sul livello minimo di contenuto di cotone riciclato e quindi “non c’è modo di sapere in quale proporzione Primark include le fibre sostenibili”. Oltre a sottolineare come la multinazionale non abbia ancora garantito salari dignitosi ai lavoratori della sua catena di approvvigionamento, Greenpeace ritiene che l’azienda abbia messo in campo progetti per la riciclabilità e la longevità degli strumenti, ma “nessuno di questi è pensato su larga scala“. Per questi motivi l’associazione ambientalista ha contrassegnato con una bandiera rossa Primark, definendola in “greenwash danger zone”.
Il problema dei punti vendita torinesi
Il primo problema è che anche nei negozi torinesi i dati esatti sulla percentuale di cotone “green” non sono riportati da Primark. Il secondo è che, stando al catalogo dei due punti vendita di Torino (Le Gru e To Dream), i vestiti di questa linea sono 414 su 1175. In altre parole gli utenti torinesi, ad oggi (11 maggio) hanno di fronte il 35% di capi con cotone sostenibile, ma all’interno di essi non si sa quanto materiale provenga dalla filiera “sostenibile” e quanto no. Tra l’altro, fino alla scorsa settimana (2 maggio) la disponibilità di capi era leggermente minore, come testimoniano questi screenshot.
H&M
H&M non ha il filtro di acquisto dedicato al punto vendita, quindi non si può sapere (a meno di andare in ogni negozio fisico) quali capi “sostenibili” siano disponibili e se questo numero varia da zona a zona. Tuttavia sul sito rimane la sezione “Take care”, con i consigli su come riparare e lavare i vestiti.
Greenpeace classifica H&M come “a rischio greenwashing” perché l’etichetta (poi eliminata nel 2022) “H&M Conscious” era usata in modo illecito: non conteneva nessuna informazione concreta sulla sostenibilità effettiva dei capi, tanto che l’Autorità olandese per i consumatori ei mercati (ACM) ha indagato e l’ha bandita.
Inoltre Greenpeace contesta ad H&M l’utilizzo di poliestere e plastiche non biodegradabili, la mancanza di un piano per la riduzione degli elementi chimici inquinanti e la bassa remunerazione dei lavoratori assunti dalle aziende che forniscono le materie prime.
Zara
Zara (che non ha un catalogo personalizzabile con i capi disponibili per ciascun punto vendita) ha creato la linea “Join Life”, in cui rientrano materiali e abiti che hanno ottenuto punteggi alti dopo i controlli ambientali e sociali. Tuttavia la lista dei fornitori di questi materiali non è pubblicata, come spiega Greenpeace. Inoltre l’etichetta Join Life è fuorviante per il consumatore: a volte si riferisce alla qualità del cotone, a volte al basso consumo di energia impiegata per produrre un capo di abbigliamento.
Benetton
Anche in questo caso non esiste un catalogo online suddiviso per negozio. Greenpeace però contesta il progetto “Benetton Green B“, in cui rientrano tutte le iniziative e i prodotti dell’impresa che vogliono andare nella direzione della sostenibilità. I materiali sostenibili però includono cotone BCI (Better cotton initiative), Poliestere riciclato da bottiglie di PET dell’industria alimentare e mix di policottoni organici. Inoltre non sono specificati gli standard a cui l’azienda fa riferimento quando parla di “filiera certificata”.
Decathlon
Non potendo consultare il catalogo online suddiviso per punto vendita, nemmeno per la linea “Ecodesign” di Decathlon è possibile sapere sia distribuita in modo diverso tra il Piemonte e le altre zone del mondo. Greenpeace sottolinea come la multinazionale dell’abbigliamento sportivo non dica chiaramente a quale standard faccia riferimento per il cotone e quali certificazioni utilizzi per il poliestere riciclato.
Decathlon inoltre non ha ancora eliminato del tutto dalla sua vendita abiti prodotti utilizzando i PFCs, ovvero i composti poli- e per-fluorurati detti “inquinanti eterni” (come i PFAS). Queste sostanze sono classificate come cancerogene per la salute umana, in quanto associate a tumori ai reni e ai testicoli. In tutto questo, Decathlon non fornisce la lista dei fornitori, quindi non si può sapere chi, stabilmente, usa PFC nel proprio processo produttivo.
Mango
Mango ha lanciato la linea “Committed”, su cui Greenpeace ha contestato il criterio per cui, per essere dentro questa linea, gli abiti possono avere anche solo il 30% di fibre sostenibili. In più “il 50 % delle fibre utilizzate sono sintetiche, di cui 14% è plastica riciclata e non c’è nessun obiettivo di riduzione”, secondo l’associazione ambientalista.
C&A
C&A ha un solo punto vendita in Piemonte ed è a Biella; anche in questo caso però non è possibile consultare il catalogo specifico dei prodotti della linea green, chiamata “Wear the Change”. L’accusa di greenwashing mossa da Greenpeace deriva dal fatto che C&A etichetta come “green” una grande varietà di prodotti e i criteri di assegnazione non sono chiari. “L’uso del termine “sostenibile” è fuorviante – spiega Greenpeace – dal 2021, il 77 % dei materiali di C&A sono definiti “sostenibili”, tuttavia, vengono incluse fibre di plastica riciclata e cotone BCI”.
Calzedonia
A Calzedonia sono collegati tre collezioni con i relativi brand: “Eco Collection” (Calzedonia), “Intimissimicares” (Intimissimi) e “Be the Change” (Tezenis). Anche qui non è disponibile filtrare il catalogo per punto vendita, ma per tutte e tre Greenpeace rileva che “non vengono pubblicati gli elenchi o i dati riguardo alle sostanze vietate che vengono riversati nelle acque reflue da parte delle fabbriche produttrici”. In più, i capi “sostenibili” sono solo il 16% (con l’obiettivo di arrivare al 25% nel 2025). Anche in questo caso c’è la “danger zone” per il greenwashing.
Le emissioni
Secondo il report del World Economic Forum del 2021, 8 filiere sono responsabili di più del 50% delle emissioni globali. Tra queste c’è anche quella tessile e in particolare la “fast fashion”, con un contributo tra il 5-10%. Sempre secondo il report, di questo inquinamento solo il 2% può essere ridotto riciclando; un altro 15% di riduzione si potrebbe ricavare facendo pressione sui fornitori e la maggior parte (45%) convertendo tutta la filiera a fonti di energia rinnovabile.
Aggiornamento: Primark ha risposto all’articolo che avete appena letto.
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