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Rosso Profondo, Antonio Paolacci e Paola Ronco raccontano l’omicidio della signora in rosso
L’intervista con i due autori

TORINO – 15 settembre 1991. Sotto un viadotto della tangenziale torinese, a Moncalieri, viene trovato il corpo senza vita di una donna vestita con un abito rosso in chiffon di seta. Per tutti è subito “il caso della signora in rosso”. Le indagini si concentrano sul marito, grigio impiegato Fiat così diverso dalla vivace e libertina consorte, e su tre slavi, che potrebbero essere gli ultimi ad aver visto la donna.
Antonio Paolacci e Paola Ronco, 30 anni dopo, si interessano al caso di Franca Demichela, la signora in rosso e scrivono Rosso Profondo, ubagu press, partendo dai giornali dell’epoca, dalle testimonianze di chi è ancora in vita e ricorda qualcosa (e ha voglia di parlare) ma soprattutto hanno accesso a tutti i documenti dell’inchiesta.
Così possono ricostruire una storia che non ha mai trovato un colpevole, stupirsi degli errori commessi da chi ha indagato, delle mancanze, delle sorprendenti coincidenze. La loro è un’analisi che contestualizza la vicenda all’epoca storica, alle tecniche investigative dell’epoca, al linguaggio giornalistico degli anni ’90, che è lontanissimo da quello di oggi.
Ne viene fuori un libro scritto come un giallo, con la differenza che quello che c’è scritto è tutto accaduto realmente. Un romanzo appassionante e interessante anche come documento storico, che racconta una Torino ed un’Italia molto diverse da quelle attuali.
L’intervista con Antonio Paolacci e Paola Ronco
Il caso della “signora in rosso” fu molto chiacchierato nel 1991. Quali furono le caratteristiche che trasformarono un omicidio in “una storia”?
In un primo momento ad agganciare l’attenzione è stato sicuramente il mistero di una donna sconosciuta, vestita con un appariscente abito rosso, ritrovata strangolata e abbandonata sotto un viadotto della tangenziale, in mezzo ai rifiuti. Il luogo, il vestito, il fatto che nessuno ne denunciasse la scomparsa lo facevano sembrare un “caso da romanzo giallo”, come gli stessi giornali lo definirono subito. Quando poi si è scoperta l’identità della vittima, è stato come un colpo di scena da manuale: una donna benestante, figlia di un dirigente della Fiat, ma anche una donna fuori da ogni schema, con una personalità unica e dirompente. Franca Demichela era un enigma nell’enigma, nella cui storia si intrecciavano i salotti della Torino bene con i cosiddetti bassifondi, la vita notturna, la sfrenatezza. Due mondi opposti che convergevano nel suo caso, creando anche due tesi opposte di colpevolezza: una che puntava il dito contro gli “zingari sporchi e cattivi”, l’altra contro “il marito perbene”. Il fatto poi che fosse appassionata di esoterismo e sostenesse di essere la reincarnazione della regina egizia Nefertiti apriva una finestra anche sulle molte leggende che considerano Torino capitale dell’occultismo e del satanismo.
Come mai avete deciso di riprendere la vicenda di Franca Demichela dopo 30 anni?
Per noi, la scrittura e la lettura sono – tra le molte altre cose – anche un mezzo per indagare e conoscere la società, la cultura, le persone che ci circondano. Già la nostra serie di romanzi fiction ha per noi un fortissimo legame con la realtà; nel 2023, poi, abbiamo scritto anche un saggio sulle narrazioni dei crimini reali. Scrivere un true crime era quindi in qualche modo nel nostro destino, e il caso Demichela era secondo noi quello che più poteva permetterci di raccontare non solo un delitto ma anche le indagini e i metodi degli inquirenti, oltre che le opinioni di stampa e gente comune. Lo conoscevamo bene da anni perché è una nostra vecchia ossessione, prima di Paola – che all’epoca era quindicenne e viveva nello stesso quartiere della vittima – poi di Antonio, che ha iniziato a indagarlo anni dopo.
La vostra ricostruzione della vicenda è organizzata come un romanzo giallo. Quali sono i motivi di questa scelta?
Oggi i delitti realmente avvenuti si raccontano in tante maniere diverse, con libri, pubblicazioni periodiche, podcast, vari format televisivi; si va dalle narrazioni documentaristiche di vicende reali a un certo modo di ammiccare alla fiction, all’intrattenimento. E a volte può succedere che il piano della realtà e quello della finzione si confondano, generando un cortocircuito pericoloso tra il gioco narrativo e l’informazione. Per questo, stabilire un confine netto tra realtà e fantasia è per noi fondamentale. Il lavoro che abbiamo cercato di fare con il caso Demichela è incentrato sul rispetto rigoroso dei fatti: non abbiamo voluto inventare nessuna scena, nessun personaggio o avvenimento. Ma i fatti reali sono il regno del caos, della confusione, e il nostro mestiere è proprio mettere ordine in questo caos, per meglio comprenderlo. E in questo caso il caos poteva essere organizzato in una narrazione classica, tanto classica che abbiamo deciso di dividere il libro in cinque atti, come nella tragedia classica. Se Rosso profondo somiglia a un giallo è perché i fatti sembrano quelli di un romanzo. Del resto il genere stesso, fin dalla sua nascita, esiste per ricalcare vicende reali.
Una storia che non ha trovato una soluzione, cosa non funzionò nelle indagini dell’epoca?
La reazione al delitto da parte di inquirenti e mezzi di informazione è una parte importante del nostro racconto, proprio perché mette a nudo alcune tipiche debolezze umane. Come ci hanno detto molte persone che abbiamo intervistato, forse il caso Demichela poteva essere risolto in un paio di giorni. Invece, fin dalla prima ora, le indagini hanno risentito di errori umani emblematici, spesso legati a pregiudizi e automatismi lavorativi. Negli anni, molti di questi errori si sono ripetuti a cascata, come in una specie di effetto domino. Quando noi siamo riusciti ad accedere ai documenti ufficiali dell’indagine, e a metterli insieme alle ricostruzioni giornalistiche, abbiamo potuto vedere le vicende nella loro complessità. Così abbiamo capito che potevamo raccontare anche questo: ovvero quanto è importante il metodo che adottiamo noi tutti, ogni volta che cerchiamo risposte, verità o soluzioni, e magari imbocchiamo strade che sembrano scorciatoie, e che invece ci portano definitivamente fuori pista.
Franca Demichela e il marito Giorgio Capra sembrano essere due personaggi agli antipodi. E’ questo il centro di tutta la storia?
Non pensiamo che questa storia abbia un centro unico, proprio per le ragioni cui accennavamo prima: essendo una vicenda reale, qualsiasi “centro” possiamo individuare sarebbe un artificio, una forzatura per semplificare il caos della realtà. Ciò non toglie che quel matrimonio appare ancora oggi misterioso: Demichela e Capra erano di fatto il giorno e la notte, due poli estremi: lei esuberante, amante della vita notturna, sempre appariscente e colorata, circondata da amicizie e conoscenze tra le più strane e disparate; lui grigio, asociale, abitudinario e metodico ai limiti del maniacale. La loro unione era un mistero nel mistero, non necessariamente centrale per quanto riguarda il delitto, ma certamente essenziale.
Più volte nello svolgersi della vicenda vi fermate e contestualizzate la situazione storica dell’Italia e del Mondo. Serve per comprendere appieno il caso?
Pensiamo che non sia possibile raccontare appieno una storia vera, per quanto isolata, se non la si inquadra anche nel contesto in cui è avvenuta. In questo caso, poi, il contesto ha un valore in sé, perché i primi anni Novanta sono stati decisivi nella cultura del nostro paese. Per questo abbiamo voluto indagare non solo l’omicidio, ma una società in evoluzione in anni cruciali, quando iniziava un nuovo modo di fare politica, si assisteva alla prima ondata migratoria significativa in Italia e si modificavano i media, e quindi la stessa narrazione dell’attualità.
E’ molto interessante notare come in 30 anni sono cambiate molte cose nell’approccio ad una caso di cronaca. Dal linguaggio utilizzato dai giornali, al pensiero della gente comune, alle metodologie di interrogatorio…
Il giornale che ha più seguito il caso Demichela, “La Stampa” di Torino, oggi ha un Diversity Editor (è anzi il primo giornale italiano ad averne adottato uno), che ha il compito di evitare l’uso di espressioni che possano alimentare pregiudizi e preconcetti sulle persone, in base per esempio alla loro classe sociale, al genere o all’etnia. Oggi è facile notare quanto all’epoca – in assenza di tanta attenzione – i pregiudizi che trasparivano dal linguaggio non fossero solo un problema formale, perché il linguaggio è uno specchio importante del modo di pensare dell’intera società, e quindi di giudicare, condannare e assolvere. Quanto alle testimonianze, un’amica psicologa della polizia ci ha aiutati a capire e a spiegare come le testimonianze possano essere una delle principali cause di confusione nelle indagini: ricordi che non collimano, contraddizioni, dettagli che non tornano, hanno spesso cause psicologiche. È quindi sbagliato ritenere – per esempio – che chi dice il falso o si contraddice abbia sempre motivazioni losche o qualcosa da nascondere. Si tratta di conoscenze tecniche cruciali per effettuare interrogatori coerenti e quindi per le indagini, eppure iniziano solo adesso a entrare nelle scuole di formazione della polizia, e purtroppo non ancora abbastanza.
Tra le tante curiosità storiche che vengono analizzate nel libro mi colpisce come questo caso sia esemplificativo della storica rivalità tra polizia e carabinieri (che quindi non è solo un mito narrativo). Cosa accadde in questo caso?
Per via di una singolare coincidenza, è accaduto che a identificare Franca Demichela siano stati sia i carabinieri che la polizia, separatamente. Questo ha implicato l’apertura di due fascicoli sul caso. Di norma, il Pm di turno dovrebbe incaricare delle indagini un solo corpo, ma può succedere come in questo caso che entrambi si muovano in autonomia. Quando poi si tratta di un delitto che ha una certa eco mediatica come questo, può capitare che tra le due forze dell’ordine si scateni una vera rivalità: una gara a chi risolverà prima il caso. In più, con il delitto Demichela, è accaduto anche che i due corpi avessero abbracciato due tesi di colpevolezza opposte, e siccome una confutava l’altra, invece di unire le forze in un’unica direzione, polizia e carabinieri hanno finito con l’ostacolarsi a vicenda.
Cosa rimane oggi, 30 anni dopo, del caso della signora in rosso?
Rimane una storia da conoscere nel rispetto di chi l’ha vissuta. Anche se – pare – nessun colpevole pagherà mai per quel delitto, questa storia può rappresentare una goccia in più di conoscenza, di consapevolezza, della realtà che ci circonda. Ma resta anche il dovere, per quanto retorico possa sembrare, di rendere giustizia almeno con la memoria a una vittima, senza giudicarne la vita. Perché forse Franca Demichela non suscita in tutti la stessa pietà solitamente attribuita ad altre vittime, ma il punto è anche questo: l’essere vittima non dipende da quanta empatia si possa provare per lei. Franca Demichela era una persona, con le sue debolezze e la sua forza, come ognuno di noi.
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