Cultura
Valentina Bartolo, dalla Melevisione a Pirandello con Michele Placido
Un’intervista approfondita alla scoperta dell’attrice torinese in tournèe con “Pirandello – Trilogia di un visionario” per la regia di Michele Placido

TORINO – E’ nata a Chivasso, ha studiato al Piccolo di Milano con Luca Ronconi, poi ha cominciato il suo viaggio nel mondo del teatro, del cinema e della televisione. Valentina Bartolo è in giro per l’Italia da mesi al fianco di Michele Placido con “Pirandello – Trilogia di un visionario“, produzione di Goldenart Production, regia di Michele Placido, con in scena, oltre a Placido e Bartolo, anche Paolo Gattini e Brunella Platania.
Per arrivare a questa tournèe, che si concluderà il 28 marzo, il viaggio nell’arte di Valentina Bartolo ha avuto una lunga serie di tappe affascinanti. Dalla collaborazione iniziale col Teatro Stabile Torino, a quelle col Teatro di Roma, col Teatro Stabile dell’Umbria, col Teatro della Pergola, per citare solo alcune delle esperienze, che per scoprire in maniera più approfondita vi basta aprire Wikipedia.
Poi la televisione, partendo dalla Melevisione, per arrivare alla sempre rimpianta “Non uccidere”, fino a “Il Paradiso delle signore” e ancora al cinema, protagonista in “The Gerber Syndrome: il contagio” di Maxì Dejoie, la troviamo anche nel successo “The Nest (Il nido)” di Roberto De Feo.
Abbiamo avuto modo di scambiare un po’ di impressioni con Valentina Bartolo sulla sua carriera ed in particolare sullo spettacolo in scena in questi mesi, un grande successo di cui l’attrice torinese è protagonista.
“Pirandello – Trilogia di un visionario”, con cui siete in tournée da mesi, è un viaggio vero e proprio nel mondo di Pirandello. Come è strutturato lo spettacolo?
Lo spettacolo affronta tre opere di Luigi Pirandello, tre storie: l’atto unico “L’uomo dal fiore in bocca” e le novelle “La carriola” e “Sgombero” – quest’ultima sconosciuta ai più, e pubblicata postuma – unite insieme da alcuni frammenti di lettere che si scambiarono lo stesso Pirandello e Marta Abba. Un contenitore, quello dello scambio epistolare, che lo bagna di un sentimento che va oltre il teatro pirandelliano, il sentimento dell’amore impossibile, sublimato in una moltitudine di lettere dal carattere quasi romanzesco dove stile letterario e sostanza del rapporto intimo tra i due si mescolano e interagiscono a comporre un opera creativa sul rapporto tra queste due identità: il maestro e la sua musa.
Lo spettacolo ha un impianto scenico che attraverso luci e scenografia mira a svelare uno spazio dentro l’altro, a ricreare scatole mentali via via più profonde fino a rompere la quarta parete e utilizzare anche lo spazio della platea nell’atto finale.
Quali sono i temi principali che si affrontano nello spettacolo?
Ogni opera ha un suo centro specifico ma si può dire che siano tutte legate all’esperienza del dolore, che però si fa opportunità di scoperta piu o meno critica, assurda, paradossale di un’altra visione della realtà, di un rovescio della medaglia spiazzante, riabilitando la sofferenza umana a occasione di riscatto.
Ad esempio “L’uomo dal fiore in bocca” affronta il dilemma dell’ umanità davanti alla morte e mette in luce come cambia radicalmente il modo di osservare il mondo. Di fronte alla consapevolezza di dover morire, anche gli accadimenti più ovvi suscitano importanti riflessioni e una sorprendente vitalita.
Pirandello crea un’immersione su questo tema collocandolo in un incontro preciso, occasionale, di notte, tra due persone: il protagonista,”l’uomo dal fiore in bocca”, e “l’avventore”, che s’incontrano in un bar.
L’avventore rappresenta la normalità consumata, l’umanita in crisi, con i suoi problemi di tutti i giorni e le sue preoccupazioni più o meno banali, la cui mente è appannata dalla monotonia del vivere quotidiano.
L’uomo dal fiore in bocca, che sà invece di essere destinato ad una morte imminente, rappresenta paradossalmente uno squarcio luminoso in mezzo a un umanità cieca. Questa vicinanza con la morte, questa beffa del destino, lo ha risvegliato, ha reso più lucida ed appassionata la sua capacità di penetrare l’essenza della vita, una vivacità unica, tanto che diventa per lui insopportabile condividere la sofferenza estrema che la moglie ha per lui.
Non gli è possibile accettare piu un certo tipo sofferenza, di trascuratezza, e pur amando la moglie, che io interpreto in un momento brevissimo di straniamento, un allucinazione del protagonista, ne rifiuta il dolore e le cure continue perché la vita è troppo breve per addolororarsi.
La moglie diventa quasi simbolo di un compiacimento di una certa sofferenza, arbitraria, estrema, cieca anche lei in qualche modo. Ed è con queste riflessioni che io ho provato attraverso il lavoro con Michele a restituirla in questa brevissima incursione.
C’è poi “La carriola”, un’opera che sembra scritta oggi, che tira un pugno nello stomaco al pubblico perché mostra come l’alienazione dell’umanità sia un fatto, tangibile e come la società iscritta in un pacchetto di regole e convenzioni sociali sia fallimentare per l’anima.
Il protagonista è intrappolato in una forma che sente non sua, prigioniero di un ruolo sociale che lo allontana dalla sua vera essenza. Questo conflitto genera in lui un profondo senso di insoddisfazione perché la sua anima grida. E allora cerca una via di uscita, seppur momentanea, attraverso un gesto di ribellione che attua con la sua cagnetta in ufficio, quando è solo, facendole fare la carriola, un gesto che è un piccolo, ma potente, atto di ribellione contro le costrizioni sociali.
In questo istante di pazzia consapevole, quest’uomo esprime la propria liberazione, forse, ritrovando un senso di autenticità. Tuttavia, la necessità di compiere quest’azione segretamente e gli occhi terrorizzati di quella cagnetta creano il dubbio feroce sull’impossibilità di esprimere la propria vera natura in una società repressiva. Così il cane, l’animale, si fa riflesso di quell’uomo, una specie di specchio di sè. Ma la genialita è che questa novella è permeata di un umorismo amaro. Si puo ridere, seppur amaramente, di questo riflesso che la vita ci mostra.
Chiude lo spettacolo la novella “Sgombero“, l’ultima novella scritta da Pirandello e pubblicata postuma.
Lora, una giovane donna, torna a casa, in un quartiere misero di una Sicilia secolare, nel giorno del funerale del padre che, molti anni prima, l’aveva ripudiata e cacciata di casa perché aveva avuto un figlio da un parente sposato, colpa inaccettabile per la sua famiglia. Per anni ha dovuto fare vita di strada, da sola e con grande fatica, e una volta nato il bambino sceglie di lasciarlo davanti alla porta di casa, nella speranza, purtroppo disattesa, di saperlo al sicuro.
Quando ritorna in quel luogo, dopo anni, trova il padre ancora lì, morto e poggiato su un letto, con accanto la madre immobile, che piange e prega.
È il momento di vestire il morto e sgomberare la casa.
Ed è proprio nell’atto di “sgomberare”, che questo luogo si fa teatro di un potentissimo viaggio dell’anima.
Attraverso un corpo a corpo con il padre, anzi con il suo cadavere, Lora cercherà di liberarsi dai traumi e dalle violenze subite, ma la cosa che lo eleva ancor di piu ad un rito non solo catartico, ma quasi esoterico secondo me, è che Lora è l’unica a parlare in presenza di genitori che sembrerebbero entrambe morti. Non solo il padre quindi, ma anche la madre – interpretata magistralmente da Brunella Platania- , seppur lì in carne ossa, resta fissa, come morta, in una preghiera silenziosa, facendosi raffigurazione pittorica di un dolore muto a incarnare simbolicamente una generazione di madri, vittime del patriarcato.
In scena Michele Placido, che ne è anche regista, affiancato da Valentina Bartolo… e poi Paolo Gattini e Brunella Platania. Come sei stata scelta per questo viaggio?
Ho fatto un’audizione. L’occasione è nata dall’incontro con Federica Luna Vincenti, artista poliedrica, e produttrice del progetto.
Una sera è venuta a Teatro a vedere uno spettacolo in cui ero in scena, non ci conoscevamo prima… pochi mesi dopo sono stata chiamata per fare il provino con Michele.
È stata un audizione molto emozionante per me.
Quindi nel Pirandello di Placido hai tre ruoli. Compari in apertura come Marta Abba, poi come allucinazione della moglie del protagonista de “L’uomo dal fiore in bocca” e in ultimo diventi tu protagonista nell’atto conclusivo “Sgombero”. Come ti sei preparata per affrontare quest’ultimo personaggio e quanto hai messo di Valentina in Lora?
Guarda, inizialmente sono partita dalla ricerca di ispirazioni e fonti che mi restituissero la dimensione che avevo percepito leggendo la novella, e su questo io e Michele ci siamo scambiati pensieri, immagini…
Per esempio alcuni quadri veristi, Teofilo Patini e altri. Però, ecco, il verismo è una trappola, Pirandello si discosta dal verismo, è una forma che poi cambia, e anche in questa novella è cosi. Per cui ci è venuto in aiuto Kantor, con quel tipo di avanguardia che aveva un rapporto visionario della tragedia.
Lora evolve tantissimo anche nel rapporto con il pubblico e nel linguaggio. Inizialmente rompe la quarta parete, parla al pubblico, ha un linguaggio vero, brusco, viene dalla strada, è dissacrante nei confronti della religione cattolica, non teme di disgustare gli altri, di provocarli senza pudore… c’è un clima a metà tra folklore ed estrema miseria, ma gradualmente quel mondo lì, inizia a deformarsi come in un sogno, e lei stessa si deforma, cambia e attraversa una condizione interiore di dolore enorme, che rompe le regole di spazio e tempo, fino a raggiungere una dimensione direi rituale.
La novella è stata riadattata apposta per il teatro da Michele stesso, in collaborazione con la nostra dramaturg Giulia Bartolini.
Volevamo tirare fuori il dolore di “Sgombero” nella prospettiva di un percorso viscerale, che coinvolgesse il pubblico in una catarsi collettiva.
Io ho lavorato sulla cadenza e sul dialetto siciliano, ma quella è solo una forma, ho poi scavato per così dire… e grazie a Michele ho avuto l’opportunità di fare un percorso con me stessa e le mie origini e di essere diretta con grande maestria e fiducia. E se anche il dolore di Lora non è il mio, lo diventa ogni sera, perche c’è una memoria collettiva a cui agganciarsi.
Per cui se devo dirti cosa c’è di Valentina in Lora, ti rispondo che non lo sò perché tutto si mescola… ed è il bello di questo mestiere.
Facciamo un passo indietro. La tua carriera da attrice comincia al Piccolo di Milano ma i primi lavori importanti sono con lo Stabile di Torino. Come è cambiata Valentina Bartolo attrice in 20 anni?
Ho imparato a mentire meglio forse? La verità è che non ho una risposta. Chiaramente sono diventata più consapevole, ma nemmeno troppo. Ho bisogno di sentire che c’è sempre qualcosa di ancora innocente, d’indefinito nel recitare, nel porsi nei confronti di questo mestiere.
Mi sembra che si ragioni in termini troppo estremi… del tipo “o sei qualcuno o non sei nessuno” In generale questa società ragiona cosi, c’è un individualismo dilagante, bisogna non lasciarsi sedurre da questa modalità ma non è immediato, abbiamo tutti paura di restare indietro, è una deformazione.
In vent’anni ho capito che cio che m’interessa è un approccio a questo lavoro il più possibile scevro da meccanismi fuorvianti, e poi il senso della condividisione… il desiderio di stare con persone attraverso cui crescere.
Tra tanto teatro anche cinema e televisione, da “Il paradiso delle signore” a Petra con Paola Cortellesi. Qui a Torino però siamo tutti un po’ legati alla Melevisione. Quella fu un’avventura del tutto particolare?
Eh già… la Melevisione, ideata da Mussi Bollini, Bruno Tognolini e Mela Cecchi, è stata un’esperienza incredibile per me. E più il tempo passa, più mi accorgo di quanto sia stata fortunata a far parte di quel progetto… è stato un esperimento vincente di tv educativa per i bambini.
Con quell’ambientazione filo-fiabesca e tutti personaggi diversissimi, bizzarri, poetici…
Personalmente è stato un modo di ritornare un po’ bambina… il mio personaggio, Shirin Scintilla, era una genietta giovane, incarnava lo spirito vivace e un pò ribelle dell’infanzia …e bambini e bambine si identificavano in questi aspetti turbolenti di Shirin… e poi avevamo un bellissimo rapporto tra colleghi, c’èra un clima meraviglioso.
Inoltre la Melevisione ha affrontato tematiche importantissime: dall’accettazione dell’altro, al valore della scuola, il bullismo, fino a toccare argomenti ancora oggi tabù con i bambini, come il rapporto con la morte, l’adozione (la puntata “Il cappello dei figli amati” che feci io) e persino l’abuso sessuale (la puntata “Il segreto di fatalina” che è una puntata potentissima e molto delicata).
Per cui evviva sempre Melevisione!
Chiudiamo tornando a Pirandello. Fino a quando sarete in giro per l’Italia con “Pirandello – Trilogia di un visionario” e cosa ha in programma Valentina Bartolo per il prossimo futuro?
Con Pirandello e Michele Placido finiremo la tournèe a fine Marzo.
Per il prossimo futuro sarò in teatro a maggio, prima al Teatro Parioli e poi al Teatro Franco Parenti con “Le gratitudini” per la regia di Paolo Triestino, insieme a Lorenzo Lavia con protagonista Lucia Vasini.
Poi nella stagione prossima sarò al Teatro Stabile Nazionale di Torino, nel cast del prossimo spettacolo di Liv Ferracchiati, un progetto su “Le tre sorelle di Cechov” dove io sarò Maša.
L’ultima riflessione: cosa può ancora insegnarci oggi Pirandello?
Direi che oggi è ancora più attuale.
Sembra che Pirandello ci dica che l’unico modo per vivere felici sia accettare il fatto di essere frammentati e in continuo mutamento…
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