Cultura
Bruno Quaranta racconta La trappola amorosa di Giovanni Arpino
L’intervista con Bruno Quaranta
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TORINO – Nel 1988 usciva La trappola amorosa, di Giovanni Arpino, postumo, perchè l’autore (nato a Pola ma piemontese fino al midollo) era morto pochi mesi prima dopo aver concluso con grande forza e volontà il suo ultimo romanzo. Da quel 1988 La trappola amorosa non è più stato ristampato fino a questa pregevole edizione Capricorno, corredata anche da una lettura di Bruno Quaranta.
Giacomo Berzia è un attore alla soglia dei 60 anni, che ha ormai smesso di recitare, è disilluso e la sua vita lavorativa è limitata ad una trasmissione radio in cui scrive lettere a destinatari improbabili. Non ha aspirazioni se non quella di passare serenamente un giorno dopo l’altro. “Il professore” e sua sorella lo affiancano nel quotidiano, insieme alla custode del palazzo in cui abita.
Poi però un’ammiratrice misteriosa comincia a lsciare indizi articolati, pensati, studiati, di alto livello. Così Giacomo non può fare a meno di farsi travolgere dal mistero e dalla curiosità. Fino a quando incontra una giovane commessa che dà un’ulteriore scossa alla sua non più monotona vita.
L’intervista con Bruno Quaranta
L’ultimo libro di Giovanni Arpino è, nonostante la consapevolezza della fine vicina, un libro pieno di vita. Nella tua lettura finale parli di “un’amarezza permeata d’orgoglio”. A cosa ti riferisci?
L’amarezza del passo d’addio che andava profilandosi. L’orgoglio di compierlo all’impiedi, randagio eroe fino alla fine, onorando la divisa che si era dato: la vita o è stile o errore. “Ch’io scenda senza viltà”, come suona un verso del suo Montale.
Quanto di Giovanni Arpino c’è in Giacomo Berzia?
Giacomo Berzia è innanzitutto un omaggio alle radici famigliari. Berzia, il cognome della madre Maddalena, che a Giovanni sopravviverà di alcuni mesi, e del nonno prediletto. E’ tra i personaggi de L’ombra delle colline, premio Strega 1964. Fu lui a insegnargli a distinguere “chi vale oro e chi vale paglia”, a indicargli come riconoscere gli uomini, rari, rarissimi, “con due tuorli”.
Quattro donne si muovono intorno al protagonista. La sorella Amalia, la custode del palazzo Adele, la giovane Halina e naturalmente l’ammiratrice misteriosa. Sono loro il simbolo del confine tra la vita piatta ma sicura del protagonista e l’eccitante possibilità di un futuro diverso ma rischioso?
La donna è cruciale nell’officina di Arpino. Dalla suora giovane a Sara (Il buio e il miele), accanto a cui “la più difficile condizione del vivere è pur sempre il vivere”, da Ginetta, che chiude gli occhi al professor Bertola nel Passo d’addio, a Claudia Ottavia, che allestisce la “trappola amorosa”. Nel solco di un verso giovanile di Arpino: “Tu vieni e vai…/ e sempre torni a dirmi che sono vivo”. Sempre ricordando – la donna che è la Letteratura – che “non è morte lo spazio bianco che segue”.
Non viene mai nominata ma il teatro in cui si svolge la vicenda è evidentemente Torino. Che rapporto aveva Arpino con la città?
Certo, Torino, ancorché mai nominata. Arpino è stato il sindaco poetico della città nel secondo dopoguerra. Ha, via via, libro dopo libro, composto il romanzo di Torino, come Giorgio Bassani il romanzo di Ferrara. Raccontandone le metamorfosi pubbliche e private. Era la sua città-patria, dove stare “come l’ape nel miele”. Sospesa fra “Gozzano e il metallo”, sfidante, febbrile, che regala cartoline solo ai poveretti ammalti di malinconia.
Perchè, a tuo avviso, dobbiamo leggere o rileggere La trappola amorosa?
La trappola amorosa è un sicuro filo d’Arianna, per non smarrirsi in un tempo, il nostro (qui la sua attualità), più ebete che terribile. Concedendosi qualche salutare pausa: una bottega, un Caffè, una trattoria, una promenade, un girotondo intorno al Caval ‘d brôns. Per ricordare – sapeva Arpino – che “alto su quel Caval è il cavaliere che è in noi, il meglio di noi”.
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