Ambiente
Ecco come la Fiat ha rovinato – per sempre – Torino
L’azienda che ha reso grande Torino è finita per essere il suo più grande tallone d’Achille
TORINO – Ogni famiglia che si rispetti ha una zia insopportabile, maleducata e sgradevole.
Arriva tutti i natali a mani vuote, si siede a tavola senza dare una mano, mangia criticando ciò che ha nel piatto, litiga con la maggior parte dei commensali e, solo dopo aver rovinato il pasto a tutti, lascia la casa soddisfatta.
Quella zia vorresti tanto mandarla a stendere, ma ti è sempre stato impedito.
Non puoi, è tua zia, è fatta così.
Ai parenti non puoi mai smettere di voler bene. Anche quando si meriterebbero di tutto, tranne il tuo affetto.
Torino ha una zia, si chiama Fiat. Zia Fiat ha avuto un grande ruolo nella crescita di Torino, in qualità di matrigna esigente, totalizzante ed egocentrica.
Di Torino, zia Fiat ha sempre voluto controllare tutto: dai rapporti agli ideali politici, tutta la sua vita è sempre stata oggetto di approvazione della zia.
Il ricatto di zia Fiat è sempre stata l’arma con cui ha conservato la sua autorità su Torino: fai come ti dico o me ne vado, ti abbandono.
E così, con delle dinamiche familiari degne di Freud ai tempi d’oro, Torino è rimasta traumatizzata da sua zia. Per sempre, irreparabilmente.
Ogni singolo aspetto di questa città, nella sua storia contemporanea, è stato irrimediabilmente alterato – e rovinato – dalla Fiat e le ingerenze della sua classe dirigente nella politica comunale.
E, come un manipolatore da manuale, è riuscita a fare ciò senza che i cittadini abbiano mai smesso di riverirla come una divinità.
Certo, Fiat ha dato molto a questa città. Nessuno dubita del fatto che la sua grandezza, economicamente parlando, sia dovuta in gran parte al ruolo che l’auto ha avuto nel miracolo economico italiano. Peccato che il boom sia avvenuto sessant’anni fa.
La Fiat non è stata l’unica azienda a crescere esponenzialmente negli anni ’60, come Torino non è stata l’unica città industriale nel mondo.
Eppure, siamo gli unici a provare un rispetto quasi religioso, misto a nostalgia narcotizzante, nei confronti di un periodo e di una realtà aziendale che non esistono più.
Ma soprattutto, continuiamo incessantemente a definire torino la città dell’auto, come se non fosse mai successo nulla prima di Fiat e come se qui non succedesse nulla adesso che Fiat non c’è più.
Zia Fiat ha voluto quartieri interi per sé, attorno alle sue fabbriche. Alberi? Zero. Autobus, linee tranviarie? Ma che si comprino una macchina, tanto hanno lo sconto.
Mirafiori è rimasta esattamente identica a come è stata concepita il secolo scorso: lo zampino di Zia Fiat, i suoi desideri e i suoi diktat sulla città si sono ben conservati, anche se lei ci ha abbandonati anni fa.
Esistono migliaia di città nel mondo dal passato industriale: Londra, Barcellona, Parigi, Lione, Stoccarda, chi più ne ha più ne metta. Nessuna città viene associata a un’azienda eccetto Torino.
Nessuna città ha lasciato che un privato decidesse, per dirne una, se si potessero fare delle linee di metropolitana oppure no.
E mentre noi dibattiamo sulla fattibilità economica della Linea 2, Lione si gode le sue cinque linee di metropolitana. Lione, per altro, è grossa la metà di Torino.
Tutto questo perché negli anni settanta si decise, chissà per mano di chi, che non si potesse tollerare che la gente usasse la metropolitana nella città della Fiat.
Da anni zia Fiat ci ha abbandonati e noi continuiamo a comportarci come se la sua presenza arrogante avesse ancora una qualche autorità sul nostro destino, come se potesse ancora punirci se ci comportiamo male.
Un tempo poteva ricattarci, dirci che se ne sarebbe andata lasciandoci – letteralmente – senza cibo. Ma ora?
Ora, mentre Barcellona bandisce le auto e investe nell’hi-tech, mentre Londra è un hub finanziario globale, Torino rimane ferma a chiedere a zia Fiat di tornare a casa. Apparecchia ancora per lei, e piange ogni sera perché non si presenta a cena. La implora di venire, le offre tutto quello che ha in cambio della sua presenza.
Ma la Fiat non è intenzionata a tornare, e di questo Torino non se ne fa una ragione.
Il Torinese medio va ad Amsterdam e rimane ammaliato dall’efficienza dei suoi trasporti e dalla bellezza del potersi muovere ovunque in bicicletta. Poi manda una lettera a Specchio dei Tempi perché hanno osato fare una ciclabile in via Nizza.
Il Torinese medio va a Barcellona e si innamora delle zone pedonalizzate, dell’assenza di traffico e dei viali aperti solo al trasporto pubblico. Poi si arrabbia se pedonalizzano corso Marconi perchè “poi dove parcheggio?”.
E così nella quarta città del paese, con la peggior aria mai respirata in Europa, si continua a prendere l’auto per fare 100 metri.
Perchè è così che ti ha cresciuto zia Fiat: lavora, metti qualche soldo da parte, comprati un’auto e fai vedere a tutti che ce l’hai fatta.
E così, il torinese paga un terzo del suo stipendio (quando va bene) per la rata del suo pezzo di latta.
Una volta lo faceva perché non aveva alternativa: era obbligato da zia Fiat. Ora lo fa perché non vuole alternative.
Non vuole piste ciclabili, non vuole mezzi pubblici efficienti: vuole spendere il triplo della sua retribuzione annua in un’auto Stellantis prodotta in Serbia.
Sembra essere contento il tipico torinese, bloccato in Piazza Baldissera. Vive in una città con gli abitanti di Dublino e il traffico di Mumbai.
Ed è contenta pure zia Fiat, che se ne frega di lui ma intasca comunque la parcella.
E zia Fiat, il torinese medio non la manderà mai a stendere: è di famiglia, e ai familiari devi volere bene a prescindere.
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