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Scuola e formazione

“Torino laboratorio di repressione” 23 anni dopo il G8 di Genova: intervista alla costituzionalista Alessandra Algostino

In università “del G8 si parla poco. Ci sono sempre meno docenti che trattano argomenti scomodi”. Perché?

Sandro Marotta

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TORINO – “Credo che Torino sia, da anni, un laboratorio di repressione. Lo si vede dall’atteggiamento tenuto nei confronti del movimento no tav ma anche dei conflitti in città, affrontati in chiave di diritto penale del nemico”: così Alessandra Algostino, docente di diritto costituzionale all’Università di Torino, riflette sui movimenti sociali torinesi e sull’eredità del G8 di Genova nella gestione dei conflitti in città.

Pochi giorni fa è stato l’anniversario del G8 del 2001 (19-22 luglio). In questo articolo avevamo approfondito i fatti che legano il Piemonte al più sanguinoso vertice istituzionale italiano: i comitati torinesi che parteciparono ai cortei, le carceri di Alessandria, Novara e Vercelli in cui furono trattenuti i manifestanti, la storia di Spartaco Mortola e del Gruppo Abele.

Alessandra Algostino, lei era presente a Genova il 19, 20 e 21 luglio?

Non ho partecipato direttamente ai cortei di Genova perché avevo una bambina molto piccola. Ho seguito però il percorso di avvicinamento frequentando il Torino Social Forum e in precedenza il movimento contro la guerra e, nel periodo universitario, il movimento studentesco della Pantera. In strada, a Genova, avevo molti amici e familiari.

Che cosa è stato per lei il G8 e che eredità le ha lasciato?

É stato un momento di grande partecipazione civica e riflessione politica; ricordo un grande fermento sia prima che dopo il vertice. Come tutti i grandi movimenti ha lasciato e sedimentato partecipazione e attivismo. È stato un momento significativo anche in quanto ha portato a costruire convergenze tra le varie realtà; a livello locale ricordo che erano diverse le anime di Torino che avevano animato il percorso del movimento No Global. Il radicamento nel territorio si accompagnava con una prospettiva nazionale e globale.

Lei insegna Diritto Costituzionale nelle aule universitarie. Nota che gli studenti sono interessati a questo tema?

Sì, nell’ultimo anno, ad esempio, a Torino sono state organizzate due giornate sul tema e si è trattato di incontri assai partecipato sia dagli studenti che dai docenti. Ancora oggi indubitabilmente è un punto di partenza per riflettere sulla partecipazione dal basso così come sulla repressione, che, come noto, allora, si caratterizzò in particolare per la violenza delle forze di polizia, una violenza che definirei “istituzionale”.

Come docente, crede che gli spazi e i tempi per parlare di questo tema in ateneo siano sufficienti?

No, nel senso che comunque del G8 si parla poco. Fra i temi di ricerca di cui mi occupo vi sè la deriva autoritaria della democrazia, ma non è un ambito molto “praticato”, mentre, invece, ritengo sia importante, specie ragionando di diritto, democrazia e Costituzione, riflettere sul tema.

Com’è l’atteggiamento del corpo docente?

Ci sono sempre meno docenti che trattano argomenti “scomodi”, come il G8, e che, in generale, affrontino temi “controcorrente”, non mainstream, con un approccio critico.

E questo perché?

In primo luogo, citerei il ruolo del processo di aziendalizzazione, privatizzazione e burocratizzazione dell’università. Si registra un appiattimento sulla narrazione dominante e una tendenza a criminalizzare il conflitto sociale e, con esso, le visioni e interpretazioni alternative. L’approccio riflessivo viene sostituito dall’approccio descrittivo, mentre compito dello studioso è decostruire, demistificare, immaginare “oltre”. Un esempio recente di chiusura si è manifestato nella scarsa tolleranza di una parte del corpo docente nei confronti dell’occupazione per la Palestina.

Cioè?

Non si concepiscono azioni che possono anche creare disagio ma sono motivate dall’esigenza di proporre visioni e costruzioni della realtà differenti. Sono azioni e riflessioni che arricchiscono l’università e la società. E questo vale anche per i movimenti per la casa o le proteste degli eco-attivisti. La delegittimazione e criminalizzazione delle proteste contribuisce a creare un clima di passività e intimidazione, che nuoce alla democrazia.

Il sistema di finanziamento della ricerca scientifica ha un ruolo nell’agenda universitaria?

Sì. La ricerca è sempre meno finanziata e vede un crescente ruolo dei privati o della ricerca condizionata, con le ricadute negative che ne conseguono in materia di libertà di ricerca.

G8 è sinonimo di attivismo e di repressione. Che quadro emerge guardando alle mobilitazioni più o meno recenti di Torino?

Credo che Torino sia, da anni, un laboratorio di repressione. Lo si vede dall’atteggiamento tenuto nei confronti del movimento no tav ma anche dei conflitti in città, affrontati in chiave di diritto penale del nemico, con un sovradimensionamento dei reati e un ricorso, a dir poco eccessivo, alle misure cautelari e di prevenzione. Basti pensare che la procura di Torino ha una sezione chiamata ‘Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico’, che si occupa della protesta. Non si tratta di sovversione, ma di espressione dei conflitti che attraversano la società, nel contesto di una democrazia che è pluralista e conflittuale.

Come fare a cambiare rotta?

Continuando a resistere, che vuol dire mantenere spazi di discussione e riflessione libera; opporsi alla chiusura dello spazio democratico, alla deriva autoritaria. In università occorre continuare ad esercitare spirito critico, senza “accomodarsi” in un approccio meramente descrittivo dell’esistente.

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