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Cultura

I Buonanima di Ernesto Chiabotto racconta la paura del diverso

L’intervista con l’autore

Gabriele Farina

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TORINO – Il nuovo romanzo di Ernesto Chiabotto è un libro di alto livello, scritto con eleganza e capace di simbolismi e parallelismi chiari e semplici. I Buonanima, Neos Edizioni, ci porta in un paesino di una vallata del Piemonte, nel 1965.

Vàule è un paese come tanti, con la sua vita che si sussegue stagione dopo stagione. Il parroco, don Giulio, e il sindaco Garnero, che è anche il medico del paese, sono le due uniche e incontestabili autorità locali. Per entrambi il compito quotidiano è di vegliare sulla serenità degli abitanti, al massimo derimendo qualche piccola lite tra vicini. Due eventi sconvolgono però la secolare e sonnecchiosa normalità del paese.

Una bimba di circa 4 anni, muta, compare sulla strada di una giovane coppia. Nessuno è in grado di scoprire da dove arriva, nessuno nei paesi vicini ne ha denunciato la scomparsa. La coppia, con l’inevitabile beneplacito di sindaco e parroco, decide di allevarla come figlia propria, nonostante alcuni comportamenti davvero curiosi della piccola.

Poco dopo, evento decisamente più impattante sulla comunità, riappaiono un gruppetto di compaesani deceduti in tempi diversi. Non sanno perchè si trovano lì, sono in forma, per quanto freddi e senza battito, profumano intensamente di fiori di campo, parlano un italiano forbito molto lontano dal dialetto che parlavano in vita, ed hanno sviluppato interessi e capacità che mai avevano mostrato nella vita precedente.

La comunità accoglie in maniera variegata il ritorno di parenti, amici e vecchi conoscenti. Con i nuovi arrivi saltano gli equilibri e sebbene i Buonanima provino in tutti i modi a farsi benvolere la quotidianità del paese viene sconvolta. Cominciano a crearsi fazioni, qualcuno prova ad approfittare della situazione. Sindaco e parroco, le due presenza più colte di Vàule, si rendono conto che l’integrazione è complicata. I singoli cittadini apprezzano i singoli nuovi arrivati ma l’insieme della cittadinanza rischia una seria ostilità nei confronti dell’insieme dei Buonanima. Vi ricorda qualcosa?

Il romanzo di Chiabotto è fortemente politico e sociale. Dietro la narrazione è facile vedere l’analisi di quanto l’Europa sta vivendo in questi anni (e certo non si tratta di una novità quanto di un ritorno ciclico). L’immigrazione, la crisi economica, la paura del diverso, che diventa responsabile di qualsiasi problema e valvola di sfogo per ogni difficoltà. La piccola comunità è specchio di comunità più ampie, gli abitanti, con le loro caratteristiche specifiche, raccontano invece tipi umani altrettanto specifici. Ne abbiamo parlato con l’autore.

L’intervista con Ernesto Chiabotto

Siamo in un paesino delle vallate piemontesi nel 1965. Due eventi scuotono le secolari abitudini di Vaule. Come è nata questa storia?

Io sono un curioso e qualche anno fa, durante il Covid, ho letto un saggio molto interessante di Massimo Recalcati: La tentazione del muro, che parla di relazione con “l’altro”, di “confini” reali o simbolici e delle difficoltà di gestire queste condizioni. Era anche un periodo in cui leggevo volentieri romanzieri sudamericani e quindi mi è venuta voglia di scrivere una storia che partisse da una situazione anomala, che esplorasse quel tema così serio, mescolandolo con un pizzico di magia e molta ironia. Così mi sono fatto aiutare da personaggi bizzarri come i Buonanima, soprattutto quelli che compiono azioni poco spiegabili e da Celeste, la trovatella muta che è un personaggio molto particolare. Insomma, mi sono divertito a immaginare cosa sarebbe successo in una piccola comunità isolata in cui accadono cose fuori dal normale. E pian piano, questa storia ha preso forma.

Veniamo subito al dunque. E’ facile vedere simboli e riferimenti nel tuo racconto. I Buonanima parla di immigrazione e paura del diverso. Semplificando molto mi verrebbe da dire che basterebbe leggere questo libro per copire l’illogicità di alcuni comportamenti umani…

Sono lusingato da questa tua affermazione, ma temo che non sia così semplice. Su questo argomento, che è il tema centrale del romanzo, sono stati scritti fiumi di inchiostro da gente molto più qualificata di me, come ho accennato prima. Io non mi sento certamente in grado di fornire soluzioni facili a problemi che sono giganteschi.
Anche nel romanzo ne emergono, si parla del loro sviluppo e dei contrasti che generano. C’è anche qualche ipotesi di soluzione suggerita dai personaggi, ma è rapportata a una realtà semplice come quella di una piccola comunità. Non c’è nessuna pretesa di insegnare niente a nessuno. Io mi accontenterei di pensare che chi leggerà questo libro possa innanzitutto divertirsi e magari trovare qualche spunto per riflettere su ciò che ha letto. Se poi ci vede qualche analogia con la realtà che ci circonda, ben venga.
Io non vivo sulla Luna, oltre ai libri letti, come tutti prendo spunti da ciò che osservo.

Torniamo al racconto. Come mai hai decio di ambientarlo nel 1965?

Mi serviva una certa distanza dai nostri tempi, molto più complessi di allora. Oggi lo sviluppo della storia sarebbe completamente diverso. Tanto per dire, il segreto di ciò che accade a Vàule, il ritorno dal cimitero di un buon numero di “defunti” durerebbe pochi secondi, il tempo di un click sul cellulare per finire sul Web, altro che isolamento!
Poi mi serviva anche ambientarlo in un paese immaginario: questo per evitare riferimenti a qualche luogo specifico e provare a renderlo, al contrario, universale.

La tua Vàlue è piena di “personaggi tipici”. Su tutti il sindaco, che è anche il medico del paese, e il parroco. Ce li racconti?

Sindaco e parroco a quei tempi, metà anni ’60, in una realtà così minuscola come me la sono immaginata, erano le due figure principali di riferimento per tutti. Garnero è anche il medico, il che mi ha semplificato le cose. Sono molto diversi da altri due personaggi analoghi e famosissimi: don Camillo e Peppone. Al contrario dei loro celeberrimi predecessori, don Giulio e Garnero non sono quasi mai in contrasto, anzi sono dalla stessa parte, fanno tutto o quasi di comune accordo. Hanno caratteri ben definiti, complementari per certi versi e ognuno ha un proprio modo di affrontare i problemi che via via sorgono.
Quello più divertente tra i due, secondo me, è don Giulio anche per il suo buffo modo di esprimersi. Garnero è più pacato ed è colui che ha il rapporto più confidenziale e profondo con i Buonanima, soprattutto con alcuni di loro.
Entrambi hanno il primo contatto con questi strani personaggi, i Buonanima e cercano in tutti i modi di aiutarli.

Per sgomberare il campo da ogni dubbio i tuoi Buonanima non hanno nulla a che vedere con un’invasione di zombie. Chi sono i tuoi morti che ritornano in vita?

Questo è il concetto più importante: siamo distantissimi da quei canoni.
I Buonanima sono semplicemente dei defunti che, senza che neanche loro sappiano perché e in che modo, si ritrovano in vita, almeno apparentemente. Niente mostriciattoli verdi o bluastri assetati di sangue o robe simili. Li vedessimo da distante non li distingueremmo dai vivi, non sono spaventosi o cattivi, anzi!
Quel che vogliono è soltanto reinserirsi nella vita del loro paese, con le loro famiglie, per chi ha ancora dei parenti; vogliono partecipare, far qualcosa di buono per tutti, migliorare la vita grama a cui erano abituati. Altro che zombie, negativi e violenti. Al contrario, sono positivi e gentili, pieni di voglia di fare, di entusiasmo, di progetti, di vita; sono più vivi dei vàulesi e di molti di noi. Solo che non si rendono conto che lo fanno in modo un po’ bizzarro e a volte maldestro.

Tra le loro caratteristiche ci sono un intenso profumo di fiori e la capacità di parlare una lingua forbita che contrasta con lo scarno dialetto che usavano in vita. Da cosa deriva questa scelta?

Dalla necessità di differenziarli in modo semplice dal resto dei personaggi.
Un libro è fatto di parole, non di immagini, quindi niente di più immediato per far riconoscere un Buonanima ai lettori per come si esprime. Il linguaggio è importantissimo per stabilire una comunanza o una distanza; può costituire una barriera, oppure una chiave di empatia. Pensiamo a chi parla una lingua straniera, o soltanto un accento qualsiasi. Anche se non la vediamo, se siamo al telefono o in un’altra stanza, siamo velocemente in grado di catalogarla, decidere se abbiamo affinità oppure no, se sono tante o poche.
Nella logica della costruzione del romanzo, il contrasto dei due diversi modi di esprimersi dei paesani e dei Buonanima ha una notevole importanza.
La questione del profumo è invece nata per caso, parlando del mio progetto con amici che mi ricordavano come ai funerali ci fossero sempre tanti fiori. Allora ho pensato di dare a ognuno un profumo diverso. È una delle possibilità più divertenti per chi scrive di decidere le caratteristiche e il destino dei suoi personaggi.

Il romanzo ha un’evoluzione importante che naturalmente non sveleremo. Vorrei chiudere ancora sul contrasto tra cultura e superstizione, scienza e religione, sulle novità che spaventano chi non ha una base culturale solida. Qual è il tuo pensiero su questo tema in verità piuttosto ampio?

Hai ragione, è un tema davvero molto ampio, anzi ne hai citati almeno tre diversi, ognuno dei quali andrebbe sviluppato per pagine e pagine, e sinceramente non mi sembra il caso qui. I Buonanima è il mio terzo romanzo, certamente il più articolato e oltre al tema principale di cui abbiamo parlato ci sono quelli che hai citato a cui aggiungerei anche il tema della vita e della morte nella visione di quei buffi personaggi che sono i principali protagonisti.
La voce narrante non prende particolari posizioni, cerca di rimanere neutra, ma credo che i valori di chi scrive, cioè i miei, alla fine risultino abbastanza evidenti. Si potrà essere d’accordo o meno, ma fa parte del gioco. Sarebbe interessante potesse diventare spunto per una chiacchierata con chi avrà letto il romanzo, in qualche occasione.
Ciò che mi preme dire, che è molto importante, è che I Buonanima, anche se ha come protagonisti dei defunti o ex tali, non parla affatto della morte, di malattie, sofferenze o tristezze assortite. I Buonanima, come ogni libro che parla di morti, in realtà non fa altro che parlare, ancora una volta, della vita, che è l’unica condizione che conosciamo. Su ciò che ci sarà, se ci sarà, dall’altra parte nessuno sa nulla di concreto, di preciso, quindi…

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