Cultura
Maurizio Blini ci racconta Una storia sbagliata
L’intervista con l’autore del libro
TORINO – Tornano i fratelli Stelvio, nati dalla penna di Maurizio Blini e lo fanno in una Torino ancora una volta livida, spettatrice immobile degli eventi che la travolgono. Una storia sbagliata, Edizioni del Capricorno, si apre con il ritrovamento di un cadavere, orrendamente agghindato in un teatrino che stupisce gli investigatori.
Silvano Stelvio e la sua squadra dovranno muoversi nel mondo dei piccoli spacciatori, cercando di collegare il primo a due successivi omicidi, che hanno alcune caratteristiche in comune ma dei quali sfugge il significato, il movente decisivo.
Intanto Moreno Stelvio è alle prese con un accenno di depressione (o forse qualcosa di più) e per provare a superarlo si lascia convincere dall’ex collega Pablo ad accettare il caso della scomparsa di un ragazzo. I due, che non hanno alcuna licenza da investigatori privati, si muovono faticando a ritrovare l’antico splendore da poliziotti.
Le atmosfere da noir ci sono tutte, in un romanzo che lascia grande spazio all’animo dei protagonisti, alle loro riflessioni, ai loro dubbi. Una malinconia data dal tempo che passa inesorabile aleggia su tutta la storia e spinge il lettore a sentirsi vicino a Moreno Stelvio, che come sempre nei libri di Blini è quello dei due che racconta in prima persona una parte dell’avventura.
L’intervista con Maurizio Blini
Il libro si apre con il drammatico ritrovamento di un cadavere. Un omicidio che sembra subito nascondere qualcosa. Come è nata questa avventura?
La storia è nata per caso, come spesso accade. Passo sovente nel luogo citato nel libro, con il cane. E passeggiando, i pensieri volano, si inseguono, spesso come impazziti. Bene, in una di queste circostanze, mi sono immaginato un cadavere appeso, sì, come se lo avessi visto. Esattamente come l’ho poi successivamente descritto. In questi casi la fantasia galoppa verso orizzonti inimmaginabili. Ho pensato a quel luogo di notte, isolato, tra città e foresta, quasi, una sorta di paradosso. Un ponte a dividere due realtà distinte, diverse. Non poteva che essere un buon inizio. Torino di notte è magica in tutti i sensi.
Tornano i fratelli Stelvio e troviamo Moreno in grande difficoltà. Cosa è successo nella sua vita?
Tornano i fratelli Stelvio, entrambi reduci da avventure importanti, raccontate e descritte nei libri precedenti. Moreno, tra i due, è quello messo peggio, per una serie di ragioni. Lui è l’ex dirigente della squadra mobile in pensione, suo fratello minore lo ha di fatto sostituito nell’incarico. Tra loro, dieci anni di diversità, possono sembrare pochi da ragazzi, da anziani, la cosa si fa diversa. Moreno sente infatti il peso dell’età che avanza, certo, ma anche quello legato a un cambiamento importante nella sua vita, l’essere andato in pensione. Lui, uomo attivo, sempre stato in prima linea, proprio non riesce ad abituarsi, soffre. E allora con un collega si inventa una professione che non conosce affatto, quella dell’investigazione privata, dove si sente subito inadeguato in quel ruolo, incapace e arcaico. La delusione lo deprime ancor più. Dovrà fare i conti con se stesso e con il tempo, certo, ma la voglia di dimostrare che non è finito, lo spingerà a commettere degli errori fatali.
Silvano invece si destreggia con la sua squadra. Come sono i rapporti interni tra i tuoi personaggi?
La squadra mobile di Torino funziona, è compatta, tra gli uomini di Stelvio c’è armonia, pur nelle loro diversità. A volte, qualcuno, esagera, usando quella che in gergo ancora viene definita la vecchia maniera, ovvero, tutto ciò che può uscire dal seminato, per intenderci. Ma il tempo incalza e strani omicidi mettono in subbuglio tutta l’organizzazione. E’ necessario capire le dinamiche che muovono un possibile killer seriale. L’errore è sempre dietro l’angolo e loro non possono permettersi di sbagliare. Di seguire false piste. Seguire il proprio istinto andando contro corrente a volte risulta la cosa più difficile che ci sia.
Come sempre nei tuoi romanzi si toccano diversi temi. Il principale questa volta è legato al mondo della droga, quella fetta di mondo della droga, però, che tocca proprio gli ultimi…
Sì, in questo romanzo mi affaccio in punta di pieni in una panorama preciso, quello della piccola e minuta tossicodipendenza. Quella fatta di povera gente, senza soldi, che per vivere arranca, disperati che si avvitano su loro stessi ogni giorno e che pur di sopravvivere si inventano vite di espedienti. Uno dei quali, mescolare e diluire le sostanze già tagliate che acquistano, per ottenere di fatto gratis la loro dose quotidiana. Una guerra tra poveri, dove gli ultimi rischiano, così, di uccidere tutti quelli che stanno un gradino ancora sotto loro. Una giungla cittadina dove non c’è più speranza e si vive alla giornata. Miseria, degrado, emarginazione. In questo libro ho dato voce anche a loro. Alle vittime.
Poi tra i temi troviamo i rapporti in famiglia, il distacco generazionale, i diritti e si affronta anche un altro tema per nulla semplice: le comunità di accoglienza e recupero. Di cosa vogliamo parlare?
Affrontare il fenomeno dell’outing è sempre difficile. Ho voluto raccontare una storia quasi vera però, nel senso che ne ero venuto a conoscenza, dove le figure arcaiche dei padri padrone, che ancora esistono, eccome, si scontra con la volontà dei giovani di ribellarsi al loro atavico ruolo di vittime. E dove, in mezzo, permangono le contraddizioni di altre vittime, come alcune madri, tra incudine e martello, incapaci di reagire. Una piaga ancora presente nella società, che però spesso, non trova rimedio o riparo nemmeno nelle strutture preposte a tutelare i loro diritti. Ovviamente questo è un romanzo di fantasia, ma come sempre, mi ispiro a fatti realmente accaduti, denuncio le contraddizioni di un sistema spesso incapace di gestire, educare o rieducare, sollevare, aiutare, liberare uomini e donne caduti nel baratro della tossicodipendenza. Corruzione, avidità, lucro, profitto illecito, questi i veri nemici della modernità, questi i veri nemici di un Paese che si definisce civile e democratico.
C’è una domanda che credo di non averti mai fatto: come mai hai scelto Moreno per raccontare in prima persona alcune parti delle tue storie?
Due sono le serie che continuano a vivere, Meucci e Vivaldi e i fratelli Stelvio. In entrambe ho scelto percorsi simili, si parla pur sempre di poliziotti o ex poliziotti, di indagini, di Torino. Moreno mi assomiglia molto, per una questione anagrafica, innanzitutto. Tramite lui, riesco a porre quesiti, a volte a rispondere ad altri. Attraverso Moreno riesco a descrivere una città anche nei suoi particolari, ad entrare nelle sue contraddizioni, ferite, zone d’ombra. Moreno è un uomo che ha speso tutto per la polizia, sacrificando buona parte della sua vita privata e personale. Ma non rimpiange nulla di questo. Vorrebbe semplicemente non invecchiare troppo presto, per questo insiste nel coadiuvare il fratello, lo aiuta, protegge, come quando lui era un ragazzino. Moreno è un idealista, un sognatore, un uomo per bene. Penso che il lettore se ne accorga, dalle sue riflessioni, pensieri, a volte anche silenzi. Moreno, il sagace super poliziotto come lo definiscono molti, che si commuove per una canzone. Un personaggio umano, simile a noi tutti. Per questo tutti gli vogliono bene.
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