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Cultura

La tele (nasce) a Torino e compie 70 anni

L’intervista con l’autore del libro Aldo Dalla Vecchia

Gabriele Farina

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TORINO –  A Torino, lo sapete, sono nate millemila cose e tra queste, è noto, anche la televisione. Già l’Eiar nel 1928 ha la direzione generale a Torino e a partire dall’anno successivo proprio sotto la Mole cominciano i primi test di trasmissione dell’immagine. A causa (anche) della Seconda Guerra Mondiale ci vorranno altri 25 anni prima che, il 3 gennaio 1954 nasca effettivamente la televisione italiana. Quel giorno il segnale non partirà da Torino, ma ormai il più era fatto.

E Aldo Dalla Vecchia, scrittore e autore televisivo, ci riporta alla Torino della tv sperimentale con il suo La tele a Torino, agile fiaschetta Buendia Books, che esce in libreria (non è un caso) oggi 3 gennaio 2024, esattamente 70 anni dopo la prima trasmissione tv.

Questa volta è il caso di partire dalla copertina, perchè il disegno realizzato da Ernesto Anderle è davvero uno splendore: Mole, cicogna e apparecchio televisivo in fasce. Perfetto.

Dalla Vecchia, dopo una veloce ricostruzione storica dei primi vagiti sperimentali della tv a Torino ci presenta un curioso dizionario minimo dei piemontesi che hanno fatto la tv in Italia. Ci sono ovviamente i nomi noti, da Piero Angela a Chiambretti, da Paolo Beldì a Umberto Eco e Mike Bongiorno. Però sapevate che Claudio Bisio è nato a Novi Ligure e che il romanissimo Renato Rascel era nato a Torino? Un vademecum dei personaggi da sfogliare con curiosità per scoprire nomi meno noti che hanno davvero disegnato la prima televisione in Italia.

Poi troviamo un quartetto di interviste interessanti. La prima è con Raffaella Carrà, che non necessita presentazioni, poi Alda Grimaldi, la prima regista in assoluto della tv italiana, scomparsa proprio pochi giorni fa, il 28 dicembre, a seguire Enza Sampò, che di aneddoti sulla tv ne ha da raccontare a bizzeffe, ed infine Alberto Allegranza, direttore del Museo della Radio e della Tv di Torino, che chiude il cerchio e ci riporta in città e alle origini.

Chiude il volumetto un racconto tra il cinico e l’ironico, dove la tv ha un suo ruolo ben preciso (ma vi tocca leggerlo per scioprire di che si tratta.

Intervista con Aldo Dalla Vecchia

Sono passati 70 anni dalla prima trasmissione televisiva in Italia e tutto partì da Torino. Possiamo dire che a Torino si preparò il terreno per poi dare il calcio di inizio altrove?

Certamente. Torino, e la sede Rai, furono fondamentali non sono per la nascita del piccolo schermo domenica 3 gennaio 1954, ma, ben prima, per i numerosi esperimenti di quella che all’inizio veniva chiamata “radiovisione”, e che cominciano a partire dalla seconda metà degli anni Venti, per poi essere interrotti più di un decennio dopo dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Ne “La tele a Torino” c’è un’interessante raccolta di piemontesi che hanno fatto la tv. Vuoi indicarci qualche nome tra i meno noti?

La più sorprendente è forse Lidia Pasqualini (1920-2012), torinese di adozione, che fu l’antenata delle “signorine buonasera”, e che dopo aver studiato a Torino alla scuola di recitazione dell’Eiar (l’antenata della Rai), partecipò ai primi esperimenti di trasmissione delle immagini, negli studi di Roma e poi di Torino. Un altro nome forse inaspettato è quello di Mike Bongiorno, il presentatore per antonomasia e il padre nobile del piccolo schermo, che a Torino era legatissimo grazie alla madre, Enrica Carelli, e che nel capoluogo piemontese iniziò giovanissimo la sua carriera come aspirante giornalista.

Secondo te chi è invece il piemontese che più di tutti è stato importante per la televisione italiana?

Sono d’accordo con Enza Sampò, una delle due grandi signore del piccolo schermo che ho intervistato per questo libro, che alla mia domanda in proposito ha risposto: “Piero Angela, per la straordinaria durata della sua carriera e del suo successo. Angela era molto torinese anche come carattere: serio, riflessivo, rigoroso… Ma allo stesso tempo sapeva parlare al pubblico come pochi altri”.

Oggi la tv a Torino esiste ancora ma in maniera decisamente limitata. Ci sarebbe più spazio secondo te per programmi sotto la Mole o la città deve ritagliarsi un ruolo preciso più di nicchia?

A Torino, nei primi sette decenni di storia della televisione, si sono girati fior di trasmissioni e di “romanzi sceneggiati”, come si chiamavano allora. Mi piace ricordare fra gli altri Il Gran Concerto, programma di musica classica per bambini condotto da Alessandro Greco e scritto da Raffaella Carrà (nel libro racconto il mio incontro con lei nel 2009, nell’Auditorium dove veniva girato il format). Sarebbe bello che Torino diventasse una sede sempre più importante e centrale, ma voglio ricordare che la città ospita un’istituzione unica: il Museo della Radio e della Televisione Rai, diretto dall’infaticabile Alberto Allegranza, e che merita una visita ammirata per le tante meraviglie multimediali che contiene.

Questa è difficile: come è cambiata la tv in 70 anni?

È cambiata enormemente, basti pensare che all’inizio c’era un solo canale in bianco e nero, e che adesso le reti a disposizione di ciascuno di noi sono centinaia. La tivù si è frammentata enormemente e a una velocità sempre più frenetica, e oggi c’è un’offerta incredibile, forse persino eccessiva. Quello che è rimasto è la centralità della televisione, che secondo me è sempre il medium per eccellenza.

Tu sei autore televisivo e non ti chiederò se ti piace la tv di oggi… posso però chiederti quali sono (esclusi i tuoi) i programmi che ti piacciono di più?

Da qualche tempo guardo principalmente le serie disponibili su Netflix e Amazon Prime. Per quanto riguarda la tivù cosiddetta generalista, non mi perdo mai il Festival di Sanremo, e in questi giorni sto già organizzando i gruppi di ascolto dell’edizione 2024. Sono certo che Amadeus saprà darci ancora una volta enormi soddisfazioni.

Qual è a tuo avviso il futuro della televisione italiana?

Nei prossimi anni la tivù sarà sempre più divisa in due: da una parte la generalista, con un pubblico maturo e maturissimo, dall’altra le piattaforme, con spettatori molto più giovani e distratti. Ma sbaglia chi profetizza la progressiva scomparsa della tivù tradizionale, che invece continuerà a farci compagnia ancora a lungo.

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