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Cultura

Al Castello di Rivoli in mostra gli Artisti in Guerra

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La nuova attività espositiva 2023 del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea prende avvio al terzo piano della Residenza sabauda con la mostra collettiva a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio Artisti in guerra. Da Francisco Goya a Salvador Dalí, Pablo Picasso, Lee Miller, Zoran Mušič, Alberto Burri, Iri e Toshi Maruki, Fabio Mauri, Bracha L. Ettinger, Anri Sala, Michael Rakowitz, Dinh Q. Lê (con opere tra l’altro di Le Lam, Phan Oanh, Nguyen Thu, Truong Hieu, Nguyen Toan Thi, Kim Tien, Quach Phong, Huynh Phuong Dong, Minh Phuong), Vu Giang Huong, Rahraw Omarzad e Nikita Kadan.
La mostra presenta più di 140 opere di 39 autori realizzate da artisti che si trovavano o si trovano in guerra. Empatiche, sofferte, esprimono disagio ma anche grande umanità.

La mostra prende spunto dai Desastres de la Guerra (Disastri della guerra), 1810-1815, di Francisco José de Goya y Lucientes e sviluppa il tema della guerra e della soggettività post traumatica attraverso opere storiche e nuovi progetti di importanti artisti contemporanei.
Artisti in guerra include prestiti provenienti da importanti istituzioni pubbliche e private italiane e internazionali oltre a due nuove committenze, opere inedite realizzate per l’occasione dall’artista afgano Rahraw Omarzad (Kabul, 1964), e l’artista ucraino Nikita Kadan (Kiev, 1982). Entrambi gli artisti condividono una pratica connessa a quella di promotori culturali offrendo un messaggio di grande impatto emotivo e umano oltre che sociale e politico. Originate a partire da scenari di conflitto e di profondi cambiamenti geopolitici, le loro prassi invitano a riflettere sull’importanza di trovare nell’espressione creativa narrazioni di cura e di pace.

Sostiene Francesca Lavazza, presidente del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea: “Questa mostra, ultima del percorso espositivo artistico di Espressioni che si è sviluppato negli anni, raccoglie una riflessione profonda sulla contemporaneità, grazie al lavoro degli artisti che attraverso i secoli hanno saputo raccontare le discontinuità del presente e la conflittualità, interpretata attraverso la loro personale sensibilità nel tempo che stavano vivendo. Le opere esposte riescono così a scuotere il pubblico su tematiche controverse e difficili, rappresentando gli orrori della guerra, trasversali a tutti i conflitti. Ringrazio Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio per questo coraggioso progetto destinato a fare riflettere la coscienza collettiva”.

IL TEMA

“Nato inizialmente come ultimo capitolo del progetto pluriennale di mostre e ricerca Espressioni”, afferma il direttore Carolyn Christov-Bakargiev, “gli eventi internazionali recenti ci hanno portato a realizzare una nuova mostra ad hoc che indaga il significato della guerra, a domandarci come alcuni esseri umani particolarmente empatici, gli artisti, elaborino la violenza organizzata e solo apparentemente razionale della guerra evidenziandone l’orrore oppure per contrasto il suo mistero – sospeso come è tra massima imprevedibilità e massimo calcolo. Per il filosofo greco presocratico Eraclito, l’essere si rivela nella guerra, Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι (polemos pantōn men patēr esti – la guerra è padre di tutte le cose). Il filosofo francese Emmanuel Lévinas, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale che egli trascorse in parte in un campo di prigionia tedesco, ci ricorda che l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra cioè nel contrasto tra la finitudine della morte – massimamente percepibile in guerra – e l’incommensurabilità senza limiti dell’esistenza. In questo intervallo o interregno tra vita e morte, l’artista trova nell’arte un modo per tirarsi fuori dal conflitto e dal pensiero avversariale e per espandere all’infinito il tempo e lo spazio, anche quotidiano. Attraverso una serie di esempi del passato e alcune opere nuove realizzate da artisti oggi in guerra, questa mostra vuole indagare il tema culturalmente, psicologicamente, esteticamente, storicamente, filosoficamente. Per aprire una riflessione che vada oltre la semplice rimozione della guerra, oltre la spiegazione meramente economica di essa, oltre la paura o – altra faccia della stessa medaglia – la sua celebrazione come necessità e minor male”.

IL PERCORSO ESPOSITIVO

ATRIO TERZO PIANO

Il percorso espositivo inizia nell’atrio del terzo piano, con una selezione di immagini fotografiche d’archivio provenienti dalle Collezioni della GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, raffiguranti la città sabauda distrutta dai bombardamenti avvenuti durante la Seconda Guerra Mondiale (1939–1945). Le fotografie sono esposte insieme alla scultura di Ettore Ximenes (Palermo, 1855 – Roma, 1926) Il bacio di Giuda, 1884, gravemente danneggiata nelle incursioni aeree degli eserciti alleati nel 1942 e per questo allestita con la cassa contenente i suoi frammenti. È inoltre presentata in questa area l’opera di Iri e Toshi Maruki (Iri Maruki: Hiroshima, 1901–1995 / Toshiko Amakatsu Maruki: Chippubetsu, Hokkaido, 1912 –Hiroshima, 2000), testimoni diretti degli effetti delle esplosioni nucleari a Hiroshima e Nagasaki.

SALA 34

Nella Sala 34, la Guerra d’Indipendenza spagnola (1808–1814) fa da sfondo ai Desastres de la Guerra (Disastri della guerra), 1810-1815, prima edizione 1863, di Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746 – Bordeaux, 1828), il celebre ciclo di 83 incisioni realizzate nel periodo segnato dal conflitto con gli invasori napoleonici francesi. I primi piani di corpi e volti martoriati dalle sofferenze rappresentati da Goya sono allestiti in dialogo con le opere dell’artista sloveno Anton Zoran Mušič (Boccavizza, 1909 – Venezia, 2005) il quale negli anni Trenta prima della guerra aveva avuto modo di ammirare e studiare le opere di Goya a Madrid. Mušič è uno dei pochi artisti moderni ad aver vissuto in prima persona l’orrore della Seconda Guerra Mondiale. Internato nel campo di Dachau nel novembre 1944 perché aveva rifiutato di arruolarsi nelle SS in Veneto, di Mušič, oltre a un cospicuo numero di opere della serie Nous ne sommes pas les derniers (Noi non siamo gli ultimi), 1970-1988, saranno presentati anche i primissimi disegni realizzati a Dachau nella primavera del 1945.

Nella stessa Sala 34 è presentato in anteprima il più recente dipinto dell’artista e psicanalista Bracha L. Ettinger (Tel Aviv, 1948), Medusa – Rachel – Pietà, 2017-2022, da cui emergono volti allucinati ma anche profonda bellezza. Nata poco dopo la guerra e figlia di sopravvissuti polacchi dell’Olocausto, Ettinger presta servizio militare obbligatorio alla base aerea El Arish quando scoppia nel giugno 1967 la Guerra dei sei giorni tra Israele e i Paesi confinanti – Egitto, Siria e Giordania. In assenza dell’ufficiale superiore, il soldato Ettinger prende da sola l’iniziativa e organizza un’importante operazione di salvataggio dal mare di più di 150 militari israeliani durante l’affondamento della nave militare INS Eilat, esperienza che le provoca una amnesia da trauma. Dopo anni di pratica psicoanalitica prima come paziente e poi da analista, Ettinger sviluppa una cifra personale di pittura intimista sul tema della memoria obliterata che riaffiora, una pittura soggettiva di fronte al mistero insondabile della guerra. Oggi Ettinger è tra le teoriche femministe più apprezzate ed è nota in Israele per le sue attività di collaborazione con i palestinesi a favore della risoluzione pacifica dei conflitti arabo-israealiani.

SALA 35

La Seconda Guerra Mondiale è indagata anche nella Sala 35 attraverso una selezione di opere poste in dialogo con il dipinto Tête de femme (Testa di donna), 1942, di Pablo Picasso (Malaga, 1881 – Mougins, 1973) realizzato in pieno conflitto e che deriva in parte dal celebre dipinto Guernica, 1937, con cui condivide l’uso di una tavolozza di neri e di grigi. Il viso straziato e diviso in due della figura dell’artista e amica Dora Maar (Parigi, 1907–1997) probabile soggetto del ritratto, assomiglia inoltre a figure femminili raffigurate in Guernica. La grande tela fu realizzata nella primavera 1937 in memoria del tragico bombardamento aereo della cittadina basca, avvenuto a opera dell’aviazione nazi-fascista il 26 aprile 1937. Picasso denunciava gli orrori della Guerra civile spagnola e criticava aspramente la condotta del generale Francisco Franco. La tela fu esposta in quello stesso anno nel padiglione della Spagna repubblicana presso l’Esposizione Internazionale di Parigi. Divenne presto un simbolo di denuncia contro ogni forma di conflitto e prevaricazione, come dimostra la sua travagliata odissea, che, dalla chiusura dell’Esposizione di Parigi, la vide impegnata in numerose tournée tra Europa, Stati Uniti e Sud America. Dal 1940, a seguito dello scoppio della guerra, Picasso affidò la tela alle cure del Museum of Modern Art di New York per evitare che Franco ne rivendicasse la proprietà. Soltanto nel 1981 l’opera poté finalmente fare rientro in Spagna, al Museo del Prado di Madrid, per poi passare, nel 1992, nell’attuale sede del Museo Reina Sofía.

I libri con rare e uniche legature di Pierre-Lucien Martin della Collezione Cerruti Solidarité. Poème, 1938, e Au rendez-vous allemand, 1944, del poeta surrealista francese Paul Éluard (Saint-Denis, 1895 – Charenton-le-Pont, 1952) sono altresì in mostra. Solidarité è pubblicato nell’aprile 1938 con un corredo di sette acquetinte e acqueforti di artisti antifascisti, tra i quali Pablo Picasso, Joan Miró e Yves Tanguy. Il volume, i cui ricavi delle vendite sono destinati al sostegno dei combattenti repubblicani della Guerra civile spagnola, si apre con la poesia Novembre 1936, ritenuta dalla critica il primo componimento a carattere esplicitamente politico dello scrittore francese. Il poema è composto all’indomani della sanguinosa battaglia di Madrid che ha luogo tra l’8 e il 23 novembre 1936. Au rendez-vous allemand è una raccolta di poesie pubblicata nel dicembre 1944. Ospita, tra gli altri, il poema La Victoire de Guernica, composto da Éluard poche settimane dopo il drammatico bombardamento della cittadina basca. A spingere il poeta alla stesura del testo, concorre la visione dei disegni che Picasso stava realizzando per la grande tela in preparazione per l’Esposizione Internazionale di Parigi. Il volume della Collezione Cerruti si contraddistingue per la presenza di un autografo del poeta: si tratta di Les Vainquers d’hier périront, poesia composta il 14 aprile 1938, i cui versi corroborano l’immagine di una Spagna martirizzata dalla Guerra civile.

Nella medesima Sala 35 si trova anche l’opera di Salvador Dalí (Figueres, 1904–1989), Composition avec tour (anche intitolato Bozzetto per sipario di scena di “Café de Chinitas”), 1943 ca. Tra i più noti artisti surrealisti ad avere dipinto i disastri della guerra civile spagnola e della Spagna autarchica durante la Seconda Guerra Mondiale, Dalí creava opere “critico-paranoiche” sotto forma di paesaggi spagnoli onirici e desolati. Questo dipinto è un bozzetto per uno dei sipari che egli ha realizzato per la coreografia dell’amica nota come La Argentinita, la famosa ballerina e coreografa Encarnación López Júlvez (Buenos Aires, 1898 – New York, 1945), allorché ella presentò nel 1943 al Metropolitan Opera House di New York la prima della sua opera-balletto El Café de Chinitas. Il balletto era basato su canzoni di un altro grande amico e compagno di strada di Dalí, Federico Garcia-Lorca, ispirate a canti popolari spagnoli. La Argentinita, repubblicana, era fuggita negli Stati Uniti nel 1936, e questa sua coreografia, realizzata in piena guerra, doveva essere un inno alla gioia e alla libertà del mondo prima della dittatura di Franco quando, assieme a Dalí, Garcia-Lorca, Picasso e altri artisti ed intellettuali spagnoli, il Café-teatro Chinitas di Malaga in Andalusia, aperto a metà ‘800 come culla del Flamenco, era molto frequentato. Gli elementi del quadro sono carichi di riferimenti alla situazione in Europa nel 1943: attraversato da un muro centrale, il dipinto presenta sulla destra uno scenario in rovina sul cui fondale compare un edificio razionalista di ascendenza metafisica e una stella blu che, oltre a raffigurare il cartello del caffè, potrebbe alludere alla stella ebraica, espressione del tormento che affliggeva l’Europa dominata dalle leggi razziali. Dall’altro lato del dipinto, a sinistra, una bandiera rossa pende, simbolo del socialismo rivoluzionario che in quel periodo era alleato contro i fascismi.

Una parte della Sala 35 è invece dedicata alla vicenda di Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995), tra i principali artisti italiani del ventesimo secolo che, con un’inedita indagine dei materiali, ha rivoluzionato il linguaggio artistico nel secondo dopoguerra attraverso un’arte astratta materica di forte impatto. Formatosi come medico, servì nell’Esercito italiano in Nord Africa dove fu fatto prigioniero e trasferito negli Stati Uniti. Durante la prigionia nel campo POW (Prisoners of War) a Hereford, Texas, dal 1943 al 1946, decide di abbandonare la professione medica per dedicarsi esclusivamente all’arte. Nel campo di Hereford vi erano numerosi italiani che erano scrittori, artisti e artigiani, ed è possibile che da loro prese inizio l’idea di dedicarsi all’arte. In mostra è esposto il primo dipinto di Burri, l’olio su tela Texas, 1945, una delle poche opere realizzate durante la permanenza nel campo di prigionia che egli ha voluto riportare in Italia nella sua nativa Città di Castello. L’opera è fondativa, sebbene non appartenga al periodo maturo dell’artista che egli usava fare risalire al 1948 circa. Il paesaggio rosso e ocra quasi astratto è denso di materia pittorica e vi si scorge, lungo una linea alta d’orizzonte, un treno che passa, mentre in primo piano si trova una corrente d’acqua e al centro pochi elementi tra cui la staccionata del recinto del campo, una baracca come quelle dei prigionieri, un wind-vane sopra un traliccio (tipico del Texas ove le pompe dei pozzi artesiani erano alimentate a vento con mulini capaci anche di prevedere tempeste di vento) e due alberi solitari. La struttura diagonale delle linee dà movimento alla composizione in cui il paesaggio e la natura umana si incontrano in una solitudine profonda ma energica, in un limbo, nell’attesa che la guerra, lontana, finisca – in un modo o nell’altro. Accanto a Texas, sono esposti due Sacchi di Burri dei primi anni cinquanta, Sacco e Rosso, 1954, della Collezione Cerruti, e Sacco, 1954, della Fondazione Magnani Rocca. Si tratta di espressioni della certezza folgorante dell’artista che la materia stessa, la iuta, strappata e ricucita come un corpo dopo un trauma, possa esprimere senza racconto, senza figurazione, la realtà e l’alterità assolute dell’esperienza dell’esserci.

Nella stessa sala sono inoltre allestiti i reperti fotografici militari tratti da riviste dell’epoca che compongono l’opera concettuale Linguaggio è guerra, 1974, di Fabio Mauri (Roma, 1926–2009). Scioccato dalla scoperta dell’Olocausto, l’artista italiano fu internato in manicomio subito dopo la guerra e fino ai primi anni Cinquanta del secolo scorso in preda a crisi mistiche. A partire dalla fine degli anni Cinquanta, sviluppò un’arte basata sull’indagine tra bellezza, male, ideologia e potere. In Linguaggio è guerra, egli riflette all’inizio degli anni Settanta sul rapporto tra la manipolazione ideologica (il linguaggio) e la guerra in generale.

L’allestimento della sala si completa con le fotografie in bianco e nero di Elizabeth (Lee) Miller (Poughkeepsie, 1907 – Chiddingly, 1977), fotografa surrealista allieva di Man Ray che successivamente divenne fotografa di moda oltreché reporter. Durante il secondo conflitto mondiale divenne un’acclamata corrispondente di guerra per Vogue magazine, accompagnando l’esercito americano in Germania e arrivando pertanto a documentare il primo ingresso nei campi di concentramento di Buchenwald e Dachau. In questa mostra, per la prima volta le fotografie di Dachau di Lee Miller possono essere raffrontate con i disegni e le testimonianze di Mušič.

SALA 36

La mostra prosegue nella Sala 36 con una sezione dedicata alla raffigurazione artistica della ‘Guerra del Vietnam’ o ‘Seconda guerra di Indocina’ o ‘American War’, come essa viene variamente chiamata a seconda dei contesti (1955–1975). L’installazione Light and Belief. Voices and sketches of life from the Vietnam War (Luce e fede. Voci e schizzi di vita dalla guerra del Vietnam), 2012, dell’artista vietnamita Dinh Q. Lê (Ha-Tien, 1968) che oggi vive e lavora a Ho Chi Minh City (già Saigon), viene presentata per la prima volta in occasione di dOCUMENTA (13) a Kassel. L’artista è fuggito nel 1978 a 10 anni dal Vietnam del Sud dopo la presa di Saigon da parte delle truppe del Nord Vietnam (1975) e l’unificazione del Paese nel luglio 1976 ed è giunto negli Stati Uniti tra i “Boat people” alla fine degli anni Settanta. L’installazione raccoglie circa 70 disegni realizzati in guerra da diversi artisti Viet Cong e nordvietnamiti attorno al 1967-1973. A corredo dei dipinti dei Viet Cong e di soldati nordvietnamiti che rappresentano perlopiù un mondo pacifico e idilliaco nella giungla, durante gli intervalli tra i combattimenti contro americani e sud vietnamiti (ARVN), fa parte dell’installazione un video di Dinh Q. Lê composto da interviste agli ormai anziani artisti Viet Cong e nordvietnamiti per capire la vita e il lavoro degli artisti-soldati durante la guerra e cosa li motivava a non dipingere scene di battaglia o di violenza. È esposta anche un’opera di Vu Giang Huong (Hanoi, 1930–2011), importante artista nordvietnamita.

SALA 36 BIS

Nella sala seguente (36 bis) è allestita una testimonianza dedicata alla Guerra in Ucraina, in corso a partire dall’invasione russa del febbraio 2022. La guerra estende il conflitto già in atto dal 2014 quando la Russia ha annesso la Crimea e parti del Donbass, ed è elaborata dalla prospettiva dell’artista ucraino Nikita Kadan nella grande installazione The Shelter II (Il rifugio II), 2023, che si configura come il naturale proseguimento dell’opera omonima The Shelter realizzata dall’artista nel 2015 per la 14° Biennale Istanbul e dedicata al Donbass. La nuova opera al Castello di Rivoli è ispirata da immagini che documentano la guerra in Ucraina reperite dall’artista su Internet. Esprime il dramma e il dolore del conflitto russo-ucraino e assomiglia a un rifugio antiaereo diviso su due piani. Lo spazio superiore è un muro composto da pile di libri stipati contro il vetro di finestre; i libri non sono più simboli di cultura e conoscenza ma servono per proteggere gli abitanti e le loro abitazioni dai frammenti di vetro in caso di esplosioni nelle aree di conflitto, come documentano i tanti reportage di guerra. Il piano inferiore dell’installazione richiama un luogo di morte, una tomba sotterranea. Sulla terra compatta della parete di fondo si scorge una mano in bronzo fuso da un calco della mano dell’artista. L’installazione nel suo complesso si carica della tragicità della storia corrente, trasformandosi in un ambiente di solitudine, silenzio, rifugio, malinconica impotenza, e incapacità di agire.

SALA 37

Nella Sala 37 si trova l’elaborazione artistica della Guerra nei Balcani (1990–2001), con il video dell’artista albanese Anri Sala (Tirana, 1974) Nocturnes (Notturni), 1999, che utilizza tecniche documentarie di associazione tra storie personali e realtà storiche per richiamare l’attenzione sull’esperienza della solitudine e della pressione sociale in tempo di guerra. L’opera intreccia i racconti di due personaggi che per motivi diversi soffrono di insonnia: un solitario collezionista di pesci, Jacques, che vede nella violenza tra pesci una metafora del lato violento e oscuro degli umani, e un altro giovane uomo, Denis, che soffre di insonnia dopo aver vissuto atrocità quando era casco blu delle Nazioni Unite in guerra.

Nella medesima sala i conflitti in Medio Oriente (1948 – in corso) sono raccontati attraverso il film The Ballad of Special Ops Cody (La ballata dell’agente speciale Cody), 2017, dell’artista americano di origine irachena Michael Rakowitz (Long Island, New York, 1973), il cui lavoro indaga le contraddizioni delle guerre in Iraq (2003–2011). Nel film, realizzato con la tecnica dell’animazione stop-motion, il protagonista – un modello giocattolo di soldato americano – si confronta con statue votive mesopotamiche conservate dall’Istituto Orientale dell’Università di Chicago e si scusa con loro addossandosi le responsabilità dei crimini commessi contro la popolazione irachena. Il soldato, a cui il sergente Gin McGill-Prather, ex soccorritore militare dell’Army National Guard (ARNG), presta la voce, si reca al museo e, utilizzando il suo equipaggiamento militare, si arrampica sulle vetrine che custodiscono i preziosi cimeli. Il video lo ritrae mentre chiede scusa alle statue.

SALA 38 – SOTTOTETTO

Il percorso espositivo al Terzo piano del Castello si conclude nella Sala 38 e nell’ambiente sottotetto del Museo con gli echi delle più recenti guerre in Afghanistan, iniziate con l’attacco USA e la liberazione del paese dai Taliban nell’autunno 2001 (a seguito dell’attentato di Al Qaida alle Torri gemelle a New York) che si concluse con l’istituzione di un nuovo governo afgano sostenuto da forze USA e NATO fino al 2014; seguì un periodo di maggiore autonomia politica per l’Afghanistan con una ridotta presenza di truppe USA e NATO fino al ritiro definitivo nel 2021 e al ritorno del regime Talebano subito dopo. Questo conflitto con continui rovesciamenti, è evocato nelle opere dell’artista afghano Rahraw Omarzad fondatore del CCAA centro per l’arte contemporanea a Kabul e di una scuola concepita per dare accesso all’educazione artistica alle donne, fuggito nell’autunno 2021 anche grazie all’impegno del Museo e del Governo italiano. L’installazione Every Tiger Needs a Horse (Ogni tigre ha bisogno di un cavallo), 2022-2023, è un ambiente nato a partire dall’esplosione di un cubo contenente dinamite e pittura, esplosione eseguita in maniera controllata all’interno di una base militare in Piemonte grazie alla collaborazione dell’Esercito Italiano. Le sei tele che ne derivano e ne portano le tracce sono allestite per la prima volta in questa mostra. L’opera prende le mosse dalla percezione di crescente violenza e guerra continua nel proprio Paese d’origine. Una ulteriore nuova opera di Omarzad è esposta, il film New Scenario (Nuovo scenario), 2022, girato in video durante i mesi di residenza dell’artista al Castello di Rivoli, all’interno di un rifugio antiaereo di Torino costruito nel 1943 dopo i primi grandi bombardamenti della città. Esso propone invece una riflessione sulla circolarità del destino umano e sulle difficoltà di affrancamento dalle logiche del trauma, della ferita e del conflitto. L’opera mostra personaggi allegorici simili a fantasmi guidati da una partitura di movimenti e gestualità lenti e ripetitivi, in un’ambientazione teatrale essenziale costituita da oggetti di scena e luci contrastate che trasportano l’osservatore in una dimensione ipnotica e senza risoluzione. I protagonisti dell’allegoria includono, tra gli altri, un talebano, un soldato americano, un uomo d’affari, oltre a figure mitologiche avvolte in drappi. I ruoli dei personaggi si rovesciano più volte, come pupazzi della Storia.

TEATRO (programma video)

Il percorso della mostra è integrato dalla presentazione nel Teatro del Museo di un programma video curato dall’artista ucraino Nikita Kadan e da Giulia Colletti intitolato Una lettera dal fronte con opere degli artisti contemporanei ucraini AntiGONNA (Vinnitsa, 1986), Yaroslav Futymsky (Poninka, 1987), Nikolay Karabinovych (Odessa, 1988), Dana Kavelina (Melitopol, 1995), Alina Kleytman (Kharkiv, 1991), Yuri Leiderman (Odessa, 1963), Katya Libkind (Vladivostok, 1991), Yarema Malashchuk & Roman Himey (Yarema Malashchuk: Kolomyia, 1993 / Roman Himey: Kolomyia, 1992), Lada Nakonechna (Dnipropetrovsk, 1981), R.E.P. (2004), Revkovsky / Rachinsky (Daniil Revkovsky: Kharkiv, 1993 / Andriy Rachinsky: Kharkiv, 1990), Oleksiy Sai (Kiev, 1975), Lesia Khomenko (Kiev, 1980), e Mykola Ridnyi (Kharkiv, 1985).

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