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Maternità e lavoro, Appendino: “Essere incinte non significa essere malate”

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“Bisogna creare quella consapevolezza del fatto che essere incinte non significa essere malate. Frase spesso scritta e detta ma raramente davvero interiorizzata”.

Lo scrive in un post su Facebook, la sindaca di Torino, Chiara Appendino, arrivata al settimo mese di gravidanza.

Scrive la prima cittadina:

Sono ormai al settimo mese di gravidanza.
Un pancione, che negli ultimi mesi si è fatto via via più ingombrante, mi tiene buona compagnia. E Andrea, con qualche calcio ben assestato, si sincera che abbia sempre ben chiara la sua presenza.
Giorno e notte. Ovviamente.
Il peso della pancia si fa sentire, mi stanco più facilmente, spesso non riesco ad avere una buona qualità del sonno e, come è normale che sia, devo prestare particolare attenzione all’alimentazione e alle attività che svolgo durante la giornata.
È davvero molto difficile far capire cosa significhi la gravidanza dal punto di vista dell’esperienza fisica e psicologica. Per quanto non mi piaccia come affermazione, è una di quelle avventure che, per capire davvero, si devono vivere.
Ed è anche difficile darne un giudizio di valore. Io vivo la gravidanza come una bella esperienza, ma non è detto che sia così per tutte le donne. Ognuna la vive a modo suo. C’è chi la rifarebbe subito dopo il parto e chi invece non ne vuole mai più sapere. Non esiste il giusto e sbagliato, e non possono esistere giudizi. Un’esperienza così intima e profonda deve necessariamente essere esclusivamente personale.
Tuttavia, pur nella sua affascinante complessità, la gravidanza è un processo naturale al quale l’organismo nella sua interezza – a meno di particolari condizioni – tende ad adattarsi.
Io ho lavorato e sto continuando a lavorare. Certo, bisogna fare i conti con le nausee dei primi mesi (chi le ha) e con alcune attività che portano ad affaticamento eccessivo che vanno evitate, ma diciamo che, nel mio caso, il 90% delle attività si possono portare avanti senza particolari problemi.
Dipende molto dal tipo di lavoro.
In generale si tratta di un processo – anche culturale – di “normalizzazione” della gravidanza. Di creare quella consapevolezza del fatto che essere incinte non significa essere malate. Frase spesso scritta e detta ma raramente davvero interiorizzata.
Recentemente la Legge ha dato la possibilità alle donne di lavorare fino al nono mese, a patto di avere un parere medico favorevole. Spostando il congedo di maternità ai cinque mesi successivi al parto.
Lo trovo un ottimo segnale, sia per le donne, che hanno maggiore possibilità di scelta, sia per un mondo del lavoro che – colpevolmente – ha sempre visto la gravidanza come una condizione patologica, dando per scontato che una donna non possa creare valore in ciò che fa se aspetta un figlio.
È importante, a mio avviso, cambiare il punto di vista sull’intera vita professionale della donna (ma anche degli uomini, sia chiaro).
Siamo immersi nella cultura dell’ascesa. Come se fossimo tutte e tutti davanti a una montagna da scalare per arrivare in vetta. Ripetiamo il mantra dell’ “È tardi!” e, sin dall’infanzia, corrediamo le agende della nostra vita con scadenze improrogabili. Quasi mai scelte da noi.
Perderne una per molti equivale a una sconfitta. Anticiparla a un successo.
Io personalmente credo che non sia così.
Penso che la vita professionale vada intesa come un cerchio più che come una linea retta. Un cerchio il cui diametro si allarga con diverse esperienze, inclusa la maternità.
Certo, servono strumenti normativi e un salto culturale che oggi ancora non c’è, serve uno Stato pronto ad accompagnare la donna durante tutta la maternità, a partire dai servizi di welfare.
Inutile negarlo, io ho potuto scegliere: sono fortunata. Ma quante donne, oggi, possono realmente autodeterminarsi, nella scelta di percorrere una gravidanza?
Quante donne possono scegliere di diventare madri consapevoli che avranno risorse, garanzie e qualcuno su cui contare dopo la nascita del figlio?
Si, perché un capitolo a parte è proprio quello che inizia dopo il parto.
Quando hai tra le braccia un neonato che ha bisogno di attenzioni H24 e che diventa un’assoluta priorità.
Ma ben presto, se sei sola, se non hai un posto di lavoro sicuro (e spesso anche se ce l’hai), se non hai qualcuno che ti supporti, psicologicamente e materialmente, quella che dovrebbe essere l’esperienza più bella ed emozionante della vita diventa la principale fonte delle tue paure.
Hai paura di chiedere permessi al lavoro (ammesso che tu li abbia). Hai paura di non trovare posto in un nido pubblico. Hai paura di non avere le risorse sufficienti in caso di problemi imprevisti. Hai paura di ammalarti perché non avresti chi ti potrebbe stare accanto. E potrei andare avanti ore.
Con paure che ti accompagnano ora, e che magari sono iniziate già prima. Quando dovevi dire al tuo titolare che eri incinta. Nella migliore delle ipotesi venivi giudicata come “quella che fa figli perché approfitta del posto fisso”, nella peggiore non sarebbe più stato il tuo titolare.
Vorrei un mondo dove ogni donna può vivere l’esperienza della maternità serenamente.
Dove non debba vivere con preoccupazione le ripercussioni sulla propria carriera lavorativa, il ricatto di domande inopportune ai colloqui di lavoro o, peggio, di dimissioni in bianco.
Dove il mondo del lavoro accetta la maternità per quello che è: un momento del tutto naturale dove la donna – a meno di condizioni particolari – è nelle sue piene facoltà per continuare a dare il suo contributo nelle attività professionali.
Vorrei un mondo dove ogni donna e ogni uomo hanno il diritto di diventare genitori in piena libertà, al riparo da ogni paura, con tutti gli strumenti normativi che uno Stato moderno può mettere a disposizione.

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