Cultura
Rubens giocava a pallone, intervista con Stefano Muroni
Rubens Fadini. Aveva solo 21 anni ed era una grande promessa del calcio italiano. Talmente grande che venne acquistato dal Grande Torino con la convinzione che sarebbe diventato il nuovo Mazzola. Fadini però non fece in tempo a raccogliere il testimone perchè, dopo aver giocato una manciata di partite ed aver segnato perfino un gol in serie A, giocò a Lisbon il 3 maggio 1949 ed era sull’aereo che il giorno dopo consegnò un’intera squadra al mito.
Stefano Muroni, nel suo Rubens giocava a pallone, Pendragon Edizioni, racconta la storia di Rubens e lo fa presentandocela sottoforma di romanzo. Il racconto di un bambino che aveva un sogno, quello di giocare a pallone. Trovate qui la recensione completa del libro.
Stefano Muroni, come è nata l’idea di raccontare la storia di Rubens Fadini?
Io credo di sapere lo scopo per cui sono nato. In questa mia vita devo raccontare la storia dei miei nonni e dei miei bisnonni, operai della bonifica ferrarese e, attraverso le loro vite, raccontare la grande bonificazione ferrarese, che fu la più imponente d’Europa dell’800.
Prima però sento che devo “diventare uno scrittore”, sapere come scrivere un racconto, un romanzo. Per questo ero alla ricerca di una grande storia della bonifica ma dimenticata. Quella di Rubens mi sembrava speciale. Era una storia locale ma che si intrecciava con la grande storia nazionale.
Hai però deciso di raccontarla con gli occhi del bambino, del ragazzo che sogna di giocare a pallone e non con quelli del campione di calcio. Come mai questa scelta?
Ho capito subito che non avrei scritto un romanzo sul calcio, ma una storia in cui ci fosse anche il calcio. Per me è stato palese fin dal principio che sarebbe stato un romanzo di formazione, oltre ad essere un romanzo storico a tutti gli effetti. Inoltre il campione sarebbe stata la storia degli ultimi mesi, quelli vissuti al Grande Torino. A me interessava il processo, il percorso. La sua vita, i suoi sacrifici, il suo spirito combattivo, secondo me, lo rendono un vero campione, a parte l’acquisto nel Torino.
Come hai recuperato i materiali per ricostruire questa storia?
Dai comuni e del territorio ferrarese, da alcuni siti specializzati, da alcune rare interviste di alcuni suoi compagni di squadra che non partirono per Lisbona, ma anche dai libri sul Torino e dai suoi nipoti.
Nel racconto viene fuori un mondo molto particolare, quello delle famiglie che realizzarono la bonifica nel ferrarese. Ce ne parli?
La grande bonifica ferrarese parte nel 1872 con fondi che arrivano proprio da Torino e dall’Inghilterra. C’era l’idea di bonificare un grande territorio paludoso per renderlo fertile e produrre profitto. Arrivarono dunque diecimila scarriolanti da tutto il nord Italia per dare vita a quell’opera monumentale, oggi totalmente dimenticata. Quella bonifica finirà quasi un secolo dopo, negli anni ’60 del ‘900, e ancora oggi, dalle nostri parti, sono rimaste zone vallive e paludose.
Cosa ti affascina in particolare della storia di Rubens?
L’idea che, sulla carta, non avesse nessuna possibilità di realizzare il suo sogno. La povertà, il vivere lontano dai grandi centri, il fascismo, i bombardamenti. Invece Rubens non solo diventa un calciatore, realizzando il suo sogno, ma viene acquistato dalla squadra più forte del mondo. Questa storia sa dell’incredibile, e insegna ai giovani che nulla è impossibile.
Il mondo del calcio dell’epoca era molto diverso da quello che conosciamo, eppure il Grande Torino era già “costruito” mettendo insieme i più grandi giocatori italiani. Novo è stato il primo manager moderno?
Secondo me sì. Anzi, direi un imprenditore umanista. Mi viene in mente Brunello Cucinelli e il suo esperimento di impresa filosofica a Solomeo. Novo non solo voleva creare la squadra più forte del mondo, ma amava i suoi ragazzi, si preoccupava che stessero bene fisicamente e spiritualmente. Nell’intervista realizzata dopo la strage, quasi non riesce a parlare. Non erano morti dei suoi giocatori. Erano morti dei suoi figli.
Cos’è per te il Grande Torino?
L’unico appiglio, assieme a Bartali e Coppi, a cui l’Italia del primissimo dopoguerra si è aggrappata per tentare di risognare di nuovo. Oltre ai dieci in nazionale, ai cinque scudetti consecutivi, lo spirito del Grande Torino per me rappresenta ancora questo: un sogno che aiuta a sognare.
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