Cultura
Le mille e una Venezia, intervista con Liana Pastorin
Una breve raccolta di racconti edita da Buendia Books è il modo in cui Liana Pastorin si presenta nel mondo della letteratura. Ed è un modo estremamente efficace perchè Le mille e una Venezia comprende una decina di racconti estremamente sinceri, netti, capaci di colpire e sorprendere il lettore. Trovate qui la recensione completa della raccolta.
Una raccolta di racconti per affacciarti nel mondo della letteratura. Come è nata quest’avventura?
Da una sfida con me stessa: volevo scrivere un racconto circolare con un finale aperto, spiazzante. Avevo in mente un’architettura, non ancora i dettagli della storia. La struttura era così convincente, che ho potuto conservarla nella memoria a lungo prima di scrivere il testo, basato sul tema dell’inganno.
I tuoi racconti sono piccole pillole molto efficaci, ben scritti e capaci di sorprendere il lettore. E’ un obiettivo che ti sei posta in partenza quello di ribaltare le aspettative di chi legge?
“5e30” aveva quella caratteristica, ripetuta nei primi racconti scritti immediatamente dopo: un percorso inconsapevole che si è palesato così chiaramente da dover essere assecondato. Il mio obiettivo è instillare il dubbio, costringere a rileggere per acquisire maggiori dettagli che una lettura superficiale non fa emergere, lasciare il tempo per meditare, cambiare opinione, sorprendere.
Uno dei racconti, Trasparenze, è dichiaratamente ambientato a Torino. Qual è il tuo rapporto con la città?
Torino è la città dove sono nata, cresciuta e vivo con mia figlia, ma è un’anomalia nella mia famiglia, che ha origini venete e diramazioni in Brasile. Per questo motivo forse, pur amando la città, non la sento profondamente mia. Ho vissuto a Londra e a Roma per periodi brevi che hanno però coinciso con scelte fondamentali. Eppure a Torino, dove abitavo con i miei genitori e i miei fratelli (nessuno di loro nato qui), in un palazzone in zona Santa Rita, era avvenuto un piccolo miracolo: tra il terzo e il settimo piano, le famiglie avevano ricreato una situazione da paese, di mutuo soccorso oltre che di sano pettegolezzo. Quegli anni mi hanno regalato ricordi indelebili.
Immagino che i racconti siano tutti un po’ come figli. Ce n’è uno di questa raccolta a cui sei più legata?
Il mio preferito è “Scombinato”, ma sono legata a tutti per motivi diversi e sono felice che abbiano preso il volo. A “5e30” devo lo sblocco, come il trillo di una sveglia, che mi ha spinto a continuare a scrivere: il primo racconto è un po’ come il primogenito che si assume parte di responsabilità nell’educazione di quelli che seguono. “Gli amici di Teodora”, sulla fragilità della prima adolescenza, è particolarmente adatto alla lettura ad alta voce. “Fifty-Fifty” e “Blu miele” mi hanno dato la soddisfazione di sentirmi dire “ma come cavolo fai a scrivere di sensazioni che sicuramente non conosci?”.
Come hai selezionato questi racconti e non altri per la pubblicazione?
Avrei fatto scelte diverse, ma ho voluto assecondare la selezione della casa editrice. In particolare, avrei sostituito “Un giro in giostra”, che mi irrita profondamente (leggere per capire e interpretare il finale!), con uno degli altri dodici inediti.
Dopo questa avventura sei pronta per dare alle stampe un romanzo lungo?
Ho iniziato a scrivere un romanzo leggero e generazionale poco prima della pubblicazione di “Le mille e una Venezia” e spero di finirlo quest’estate. Non abbandonerò però i racconti brevi, perché credo nella formula, buona anche per un pubblico pigro che ha solo bisogno di essere invogliato alla lettura.
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