Cultura
E’ il punto di vista che fa la cosa, la mostra di Irene Dionisio a Casa Gramsci
E’ l’anno di Irene Dionisio. La neodirettrice del Lovers Film Festival (che apre questa settimana) è la vincitrice del Premio Autofocus per la Fotografia edizione 2016. Il premio viene assegnato annualmente in una sezione speciale di Autofocus, il concorso internazionale promosso da Vanni Occhiali con lo scopo di sostenere la giovane arte emergente attraverso la produzione, la presentazione e la diffusione di progetti di arte contemporanea.
La mostra è visiabile fino al 1 luglio 2017 su appuntamento telefonando al 339-7933724, o scrivendo a autofocus@nicodesign.it presso Spazio AUTOFOCUS / VANNI Occhiali di P.zza Carlo Emanuele II 15/a e Casa Gramsci di Via Maria Vittoria 28 Q, a Torino.
È sempre una questione di punti di vista, relativi a dimensioni diverse, interne ed esterne, collocate nel tempo e nello spazio, soggetti a culture ed esperienze, alle condizioni fisiche e mentali contingenti, e si potrebbe andare avanti. Questa condizione di riflessione sul reale è meravigliosa e spiazzante insieme. Perché lo statuto di relatività è intrinseca all’esperienza esistenziale. Condanna e liberazione. Irene Dionisio la vede come una questione di scatole cinesi. Di posizionamenti che ribaltano, mettono in crisi, propongono alternative e cambiano la sostanza dell’opinione così come della percezione. Forse per questo il suo lavoro si sviluppa sempre su un doppio livello razionale e percettivo: due cordoni lungo i quali tenersi per seguire una storia, che attraversa il tempo nel suo dipanarsi. Perché la memoria è un altro degli elementi imprescindibili per Irene. Memorie di diversa lunghezza, brevi e storiche che siano Storia e storie intrecciate. Questo lavoro d’indagine Irene lo realizza con una pratica di ascolto e osservazione scientifica, entomologica, che nel sul processo analitico diventa naturalmente empatica e poetica. Il nuovo lavoro che l’artista, e regista, presenta per il “Premio per la Fotografia 2016” di Autofocus è un’installazione immersiva, che mette al centro una persona e la sua moltiplicazione identitaria attraverso diversi media. Daniele è il soggetto del progetto, persona reale, giovane uomo che da nove anni fa la comparsa in film, sceneggiati, pubblicità e programmi. Figura di fondo, elemento di un paesaggio animato percepito come pattern impersonale su cui altre figure protagoniste emergono e agiscono. Extra e background actor sono i termini usati in inglese, che definiscono chirurgicamente la natura accessoria e trasparente di tale ruolo. Da altrettanti anni, in parallelo, Daniele porta avanti un lavoro concentrato sulla sua presenza, zoomandola, ritagliandola dal contesto e portandola in primo piano. Irene Dionisio nel suo progetto “Io, comparsa” continua e conduce all’estremo questo processo di inversione, creando una visione d’insieme del processo relativo a sguardo e posizione. Crea un ambiente prismatico che dà presenza e osserva contemporaneamente Daniele in tutte le sue apparizioni nel tempo. Un’eco visiva che si riverbera per gemmazione. Le identità e gli aspetti da lui assunti davanti alla telecamera disegnano un periplo iconico, simbolico della distanza tra l’individuo reale e la sua percezione nella società. E’ la fine della parabola dell’uomo del Novecento, iniziata con la presa di coscienza dell’individuo, quell’uno nessuno centomila di Pirandello, a cui le avanguardie storiche cercarono di dare rimedio provando a liberarlo attraverso la forza, il sogno o le utopie sociali. Paratie temporanee a una consapevolezza esplosa definitivamente con la società dello spettacolo debordiana e poi l’era post-moderna. Daniele è e non è. E’ uno e centomila. È apparenza e sostanza. Dipende dai punti di vista. L’installazione conduce dentro a un labirinto di scatole cinesi, dove siamo obbligati a cambiare continuamente idea. Perché Daniele risulta sia davanti sia dietro all’obbiettivo. E Irene, e il pubblico con lei, condividono questa sua posizione, di osservato e osservante, soggetto e spettatore di se stessi al tempo stesso. Bipolarismo ottico e concettuale. Lo statuto della realtà e della visione viene dichiarato evento fenomenologico relativo, razionalmente e percettivamente, e finalmente ci si può abbandonare al piacere dello sguardo e della contemplazione, come opera d’arte.
È una questione di punti di vista che si declina anche attraverso lo sguardo di una donna anziana, che a lungo ha vissuto, e lei ormai possiede il segreto dell’esistenza. Una consapevolezza elementare e insieme cinica. Naturale. La vita e la morte insieme. Il tempo che passa. Le piccole cose. Una donna anziana che parla un dialetto che è una lingua vera e propria, elaborata lungo secoli di storia in un territorio italiano del sud. La fisicità fisionomica e sonora di questa donna anima il video “Memento Mori”. Un sapere antico il suo, da dea madre, che si specchia e dialoga con le forme e il valore mistico della piccola venere primitiva impastata nelle terre velenose del Sulcis in Sardegna nella scultura “Dea Madre”. Insieme, queste figure femminili così familiari e speculari -in cui tempo, spazio e generazioni si contraggono- sviluppano simbolicamente un legame immediato con i temi sociali che furono al centro del pensiero di Antonio Gramsci: la proposta di un punto di vista e di un sentire fluido e prospettico rispetto al peso dell’ideologia. Un fil rouge organico e agile che parte da lontano e si collega al presente, passando per il tema dei diritti femminili e quello del lavoro, e poi per la questione meridionale. Per questo Casa Gramsci diventa sede perfetta di una parte del progetto espositivo di Irene Dionisio, accogliendo “Memento Mori” e “Dea Madre”.
Queste opere raccontano il lavoro di costruzione di un linguaggio delle immagini e di una sintassi iconografica e concettuale portato avanti da Dionisio. La vicenda umana è il suo ambito di ricerca. La vita, le vite, esperienze uniche, incredibili come romanzi. Basta stare ad osservare, basta osservare e dar loro voce. Per farlo Irene usa macchina fotografica, telecamera, schermi, proiezioni cinematografiche, stampe, installazioni. E non solo. Ciascuna con il proprio alfabeto (cinema, documentazione, video arte…) che si mescola a quello degli altri provando a immaginarne uno nuovo ed evoluto, che contenga segmenti di DNA plurimi. Un linguaggio altamente progettuale e non casuale, ma empatico, diretto, che coinvolga lo spettatore su più livelli. Conclude la mostra l’opera “Distruzione della sintassi”, un video che innesta due materiali visivi d’archivio: la famosa riflessione sul linguaggio di F.T. Marinetti tratta dal suo Manifesto Tecnico della Letteratura futurista (pubblicato l’11 Maggio 1912) e immagini di repertorio del terremoto nel Friuli-Venezia-Giulia del 1976. Si parla anche qui di linguaggio, di come in periodi di crisi o in esperienze di grande suggestione emotiva e di disordine, esso si scomponga e semplifichi, in una sorta di libertà espressiva che cerca la coazione onomatopeica delle parole piuttosto che la loro corretta costruzione sintattica. Le macerie visualizzano la progressiva distruzione del linguaggio, in un’accelerazione storica che arriva al nostro contemporaneo per similitudine. Quello che lascia il video è una sensazione attonita, per la quale si sente l’esigenza di trovare un senso e una spiegazione. Un viatico che impone una personale riflessione sul nostro tempo in corso, individuale e collettivo. Sulle nostre macerie.Olga Gambari, curatrice della mostra
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