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Piemonte

IMI, un’altra resistenza: la cattura e la prigionia degli internati militari italiani nei lager nazisti

Redazione Quotidiano Piemontese

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Luckenwalde. Sessantacinque chilometri a sud di Berlino. Germania. Su una cartina d’epoca una croce nera, un segno marcato, l’indicazione di un luogo preciso: lo Stammlager IIIA. Circondato da doppio filo spinato, il campo era sormontato, ad ogni angolo, da torrette in metallo sorvegliate da soldati tedeschi armati di mitragliatrici. Oltre quel filo altri soldati, altri ragazzi. Tutti prigionieri.

A partire dall’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio con gli Alleati, seicentocinquantamila uomini, appartenenti alle truppe dislocate sui vari fronti esteri, cedettero le armi pensando che finalmente fosse ora di tornare a casa e, invece, si ritrovarono vittime di una falsa promessa. Furono stipati su carri bestiame e diretti verso la prigionia.

Nel gruppo di italiani che si trovavano dislocati nei Balcani, c’era anche il sergente maggiore Perona Pietro. La sua prigionia iniziò il 2 ottobre 1943. Da quel giorno la sua nuova identità venne incisa su una piastrina: IIIA nr. 120524.

Per quanto riguarda i nostri connazionali, tutti i militari catturati vennero messi di fronte alla stessa alternativa: la detenzione o il ritorno in patria con l’adesione alla Repubblica Sociale Italiana (RSI). I “badoglien”, chiamati così in senso dispregiativo, furono considerati prigionieri di guerra fino al 20 settembre 1943, poi vennero classificati unilateralmente da Hitler come internati militari, categoria non riconosciuta dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Non erano, dunque, nemici, ma ex alleati, in altre parole disertori privi di tutele internazionali. In questo luogo dimenticato dagli uomini e da Dio, nemmeno la Croce Rossa Internazionale poté dare loro assistenza e occuparsi delle loro condizioni. Furono, in altre parole, abbandonati a sé stessi e al loro destino.

La pressione tedesca per l’arruolamento nell’esercito della neonata Repubblica di Salò si manifestò più duramente nei confronti degli ufficiali che dei soldati semplici, con molestie e umiliazioni continue. Spesso i prigionieri venivano svegliati all’alba e “docciati” con acqua gelida o picchiati con il calcio dei fucili. Alcune fonti riportano che a Luckenwalde cedettero alle vessazioni solo in sedici su sedicimila. Quelli che scelsero la reclusione, dunque, dissero no: un no di resistenza, di opposizione e di libertà di coscienza, un no antifascista, un no a tornare a combattere, un no per il sogno della pace.

Giuseppina Bruno ricorda la prigionia del marito Pietro Perona

Sebbene la questione degli Internati Militari Italiani (IMI) non possa esser liquidata interpretando semplicisticamente l’accettazione o il rifiuto di aderire alla RSI sulla contrapposizione fascismo – antifascismo, per molti la scelta della prigionia fu sicuramente una decisione consapevole e politica, espressione della difesa della dignità della divisa e della propria fedeltà alla monarchia.

Con il passare del tempo, nel campo, la guerra iniziò a esser chiamata con altri nomi: polmonite, dissenteria, fame e freddo. E allora le poche forze rimaste servivano a far gruppo e a far funzionare l’ingegno: a Luckenwalde vennero organizzati tornei di calcio e rappresentazioni teatrali, andava in onda un radiogiornale e veniva pubblicata “La Baracca” dalle cui pagine uscivano notizie e indicazioni sull’igiene personale e sull’ordine da mantenere all’interno dei dormitori, e anche qualche rebus da risolvere.

Pietro parlava un po’ di francese e aveva orecchio per il tedesco, si era diplomato sarto alla scuola salesiana di Torino prima della guerra e suonava il flauto traverso. La conoscenza delle lingue gli garantì un lavoro all’ufficio postale dello Stammlager IIIA dove controllava le lettere in entrata e in uscita, mentre l’avere un mestiere gli permise di uscire qualche domenica per confezionare vestiti e cappotti all’ufficiale Meissner e ai suoi bambini.

Passarono così circa settecento giorni. Poi arrivarono i Sovietici. E con loro la libertà. Tornato a casa nell’agosto del 1945, stanco e poco più di quaranta chili, come “un cappotto appeso a una gruccia”, così diceva, portò con sé la voglia di raccontare, ma spesso non trovò orecchie disposte ad ascoltare.

Forse l’indifferenza o solo la grande voglia di rinascita misero a tacere la flebile voce dei sopravvissuti e fecero dimenticare storie come quella del sergente maggiore Perona Pietro: storie che raccontano un’altra resistenza, un altro modo in cui si disse no a continuare la guerra.

di Luisa Perona e Anna Daverio

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