Alessandria
Lo scandalo dell’olio extravergine non è una novità, risale al 2014
Lo scandalo dell’olio extravergine d’oliva è scoppiato con l’indagine portata avanti da Raffaele Guariniello, che ha coinvolto sette dei maggiori produttori italiani e che ora si sta allargando. In realtà, per gli addetti ai lavori la notizia non è nuova. Già da tempo, infatti, nella maggior parte delle tavole degli italiani, non si consuma più olio di oliva extravergine. Di made in Italy, poi, nemmeno a parlarne.
Prima dello scandalo emerso dalle analisi della rivista il Test, infatti, la preoccupazione di contraffazioni era già stata portata alla ribalta.
Dicembre 2014.
La Coldiretti lanciava l’allarme: “Nel 2015 ci sarà il 35 percento in meno di olio di oliva italiano nei supermercati”. Motivo? La Bactrocera Oleae, meglio conosciuta come mosca dell’olivo, che, insieme a condizioni atmosferiche non favorevoli, ha dimezzato la produzione di olive.
Dal canto suo, poi, la rivista Altroconsumo, avvertiva che “l’extravergine di oliva costerà di più e sarà in prevalenza di provenienza estera”, provocando un aumento esponenziale del prezzo e incrementando le importazioni: si prevedevano 700mila tonnellate contro le 481mila del 2013.
Quasi un anno fa, dunque, si ipotizzavano possibili contraffazioni dell’olio d’oliva.
Ma, se è possibile, c’è di più. E di peggio.
Nel panorama italiano del business alimentare dell’olio extravergine d’oliva, il rischio di contraffazioni non è nuovo*. Tutt’altro.
A raccontarlo sono i giornalisti Mara Monti e Luca Ponzi, nel libro inchiesta Cibo Criminale. Il nuovo business della mafia italiana**, edito da Newton.
Spiegano: “I signori dell’olio … comprano a man bassa all’estero e smerciano in Italia … e così l’olio rischia di essere annacquato con altro olio meno prezioso”. Ma procediamo con ordine.
Innanzitutto: quanti tipi di olio esistono?
L’olio d’oliva è diviso in tre grandi categorie: extravergine, vergine e lampante. Il primo, la categoria più alta fra quelle comunemente utilizzate, deve avere un’acidità uguale o inferiore allo 0,8 percento; il secondo uguale o inferiore al 2 percento; il terzo, non commestibile e che prende il nome dal suo utilizzo in passato come combustibile per lampade, superiore al 2 percento. Semplice.
Il problema dov’è, allora? Sta nel fatto che, a eccezione di alcune denominazioni geografiche protette, tutto l’olio d’oliva prodotto e commercializzato è una miscela di oli diversi. Non solo: trasformare e manipolare un olio di bassa qualità miscelandolo con uno più pregiato è una pratica perfettamente legale. Di più. Si può miscelare un olio lampante deacidificato, decolorato e deodorizzato con uno vergine e avere un prodotto che, alla fine della procedura, è perfettamente commercializzabile: basta che il risultato finale sia un olio che abbia un’acidità inferiore all’1 percento.
Come spiegano Monti e Ponzi, infatti, le gradi aziende “acquistano ingenti quantità di olio da diverse regioni italiane o da altri Paesi produttori, e, con la consulenza di chimici esperti, producono miscele perfettamente aderenti per gusto e colore”. Un guadagno immediato e assicurato, che, specie in un momento di carenza come questo, fa gola all’industria alimentare e ai contraffattori i quali, con diverse strategie, tentano di sporcare i marchi italiani.
Facciamo degli esempi. In Italia, a seconda dei frantoi, per acquistare un chilo d’olio occorrono 4 – 5 euro; 7 euro al Centro-Nord; 3,53 in Puglia e 3,64 in Calabria.*** Troppo? Niente paura: ci si rivolge alla Spagna (primo produttore al mondo di olio, seguito dall’Italia) dove un chilo d’olio di ottima qualità costa 50 centesimi, e che gli importatori italiani possono rivendere a cinque volte tanto. Ancora: si vola in Tunisia, primo esportatore di olio d’oliva di tutta l’Africa: qui per ottenere un chilo di olio d’oliva si spendono 10 centesimi. In alcuni casi, spiegano Monti e Ponzi, si è arrivati anche a “trasformare olio di semi di soia geneticamente modificati, importato dagli Stati Uniti, in olio d’oliva aggiungendo qualche goccia di clorofilla per dargli una colorazione bionda e calda, e betacarotene per adulterarne il sapore”.
Business, certo. Legale, eccetto l’ultimo caso. L’inganno dov’è, allora? È quello di propinare questi prodotti come olio italiano. Affermano Monti e Ponzi: “La truffa sta proprio qui: smerciare un bene, spesso di bassa qualità, come italiano per lucrare ai danni dei consumatori e dei produttori onesti”. Si miscela olio importato con quello locale e si rivende come prodotto al 100% italiano. Dove non arriva l’illegalità, infatti, sopraggiunge il marketing. Com’è noto il valore della dicitura “prodotto in Italia” arricchisce i prodotti. E, ben consapevoli di ciò, i produttori cercano di rimarcarlo in qualsiasi modo. Anche in maniera subdola. Con tecniche che rasentano la frode: ad esempio dando ampio spazio a immagini dell’Italia sull’etichetta frontale e relegando la provenienza in parti dell’adesivo non visibili a occhio nudo.
Tutto ciò fino a oggi. Con la vecchia normativa CE 182/2009, entrata in vigore il 1 luglio 2009, il produttore era obbligato a indicare sull’etichetta l’origine del prodotto (seppur con la sola dicitura “olio comunitario”). Solo che poteva tranquillamente posizionarla a proprio piacimento. Dal 13 dicembre 2014, invece, sono entrate in vigore due norme che tutelano l’olio d’oliva.
La prima riguarda la nuova etichetta dell’olio extravergine: i produttori sono obbligati ad indicare sul fronte della confezione (e non più sul retro) l’origine geografica delle olive. La seconda riguarda gli esercizi pubblici: l’olio extravergine d’oliva che viene servito nei bar o nei ristoranti deve essere presentato in contenitori etichettati e avere un dispositivo di chiusura che non ne permetta il rabbocco dopo l’esaurimento del contenuto originale. Pena: una multa fino a 8mila euro.
Piccoli passi, certo. La tradizione e l’eccellenza italiana hanno bisogno di altro ancora. E, come abbiamo visto dalla recente inchiesta di Torino, forse C’è bisogno di tanto altro ancora per tutelare il settore.
Nel frattempo, però, diamo un occhio all’etichetta: perché è lì che il diavolo nasconde la sua coda.
*Uno dei primi a parlare di contraffazione dell’olio d’oliva è Tom Mueller nel suo libro “Extraverginità. Il sublime e scandaloso mondo dell’olio d’oliva”.
** Nel libro si fa riferimento all’inchiesta nell’ambito dell’indagine “Food for Fraud” firmata dai reporter Cecilia Anesi, Giulio Rubino e Lorenzo Bodrero di Investigative Reporting Project Italy (Irpi), tutt’ora in corso.
***Cifre calcolate nell’anno 2011
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