Economia
Fiat punta solo a Crysler, ma in Italia tutti quelli che contano pubblicamente fanno finta di non capirlo
Stanno succedendo molti eventi che rappresentano sempre di più quanto in tempi brevi Fiat abbandonerà l’Itala per cercare migilori fortune negli Usa. In Italia sembra che tutti quelli che contano facciano finta di non capire questo processo che viene compiutamente raccontato sul Foglio da Riccardo Ruggeri, che da operaio è diventato amministratore delegato di New Holland per poi uscire dal gruppo per fondare anche una casa editrice.
Il rapporto di Marchionne con noi investitori è sempre stato limpido, professionale. Chi era del mestiere capì subito il non detto: per me Fiat Auto concettualmente non era più un’azienda ma un “business case”, utile per il rilancio della Chrysler, e come tale sarebbe stata gestita. Marchionne fu sempre sincero con noi investitori, ci ha persino anticipato che nel 2015 uscirà di scena. Curioso invece l’establishment politico-industriale-culturale italiano. Anziché cercare di capire cosa significasse per il paese la strategia vera (quella sottesa) di Fiat Auto, si concentrò su temi sì importanti, come le relazioni industriali e la produttività, ma nella fattispecie marginali. E sull’uomo Marchionne, descrivendolo, a seconda dei casi, o come l’Uomo Nero (Boogeyman) della classe operaia o il Mandrake in golfino che avrebbe fatto tornare Fiat Auto ai fasti vallettiani. Un esempio. Da noi a corrente alternata si apre il dibattito sulla produttività, coinvolgendo a cascata tutti. Sia chiaro, la produttività è uno dei nodi irrisolti del paese, dicono i miei amici americani “voi avete sostituito al classico hiring and firing (assumere-licenziare), il curioso hiring and retiring (assumere-pensionare)”.
Per Fiat Auto, nel momento storico che sta attraversando, ciò però ha scarsa rilevanza pratica. Alcuni dati di massima. Il costo del lavoro operaio (diretti, indiretti, manutentori, ecc.) in Fiat rappresenta il 7 per cento del costo. L’intero processo di fabbrica, dalla lastro-ferratura al montaggio finale, per una Panda vale 11 ore, assumiamo un costo/operaio di 22 euro/ora, totale 242 euro/auto. In Polonia costerebbe 88 euro (8 euro/ora), in Germania 330 (30 euro/ora). Come si vede, il costo del lavoro è poco significativo. Costruire 200.000 Panda in Italia, di puro costo-lavoro, spendi 48 milioni di euro, in Polonia 18 (in crescita), la differenza di 30 milioni è irrilevante, trascurando gli altri ben noti fattori, qualità percepita compresa. E’ di questi giorni la notizia che Nissan e Hyundai, avendo i modelli giusti, hanno deciso, in piena crisi, di “delocalizzare” in Europa. Delocalizzare in Europa, capite? La vittoria postuma della Thatcher – Regno Unito come luogo di delocalizzazione dei giapponesi – si è compiuta. Il caso più eclatante di comunicazione sul nulla fu “Fabbrica Italia”: per quasi due anni ci fu un feroce dibattito fra gli attori di cui sopra. I 20 miliardi di investimenti sbandierati dai media all’inizio si ridussero a 0,7, per rifare la linea Panda. 20 miliardi che Fiat non aveva, così come i modelli nuovi, nel frattempo il mercato si era contratto: in queste condizioni il livello di produttività era irrilevante. Cgil questo non lo capì. Dopo 18 mesi intervenne Marchionne per dire che aveva sbagliato a coniare tale slogan: paginate di giornali, intelligenze di esperti e di accademici buttate alle ortiche. Ora sono di nuovo tutti lì a sfruculiare su argomenti irrilevanti o a interpretare sentenze, solo nello specifico, di scarsa rilevanza. In realtà il problema Fiat-Italia noi investitori l’abbiamo chiaro da tempo: “Fiat Auto ha stabilimenti e personale in esubero in termini strutturali, quanto costerà sfilarsi?”. Questo interessa a un investitore, punto. Noi sappiamo che da ora in avanti questi esuberi non saranno più a carico degli imprenditori-lavoratori (Cig) ma della fiscalità generale (cassa in deroga), è necessario definire, subito, quanti potranno rientrare al lavoro e quanti invece non saranno strutturalmente più necessari (quindi niente cassa in deroga). Finora la Cig rappresentava un rapporto azienda-sindacati, quindi “privato”, di qui in avanti sarà “pubblico”, i quattrini sono dei cittadini, non possono essere erogati se non in presenza di criteri e impegni certi, temporizzati e verificabili, “chiacchiere e furbate” non sono più ammesse, deleghe in bianco neppure, se del caso la magistratura potrebbe intervenire. Invece di chiarire questo aspetto fondamentale, il governo preferisce osservare il festival delle ovvietà, del tipo lettera dell’onorevole Boldrini, a cui rispondono compunti i suoi avversari: stessa fuffa, identica supponenza.
Per un investitore la “situazione” di Fiat Auto è oggi, al netto di Chrysler (merito a Marchionne: è stata una genialata, e pure fortunata) e al netto di Fiat Industrial (altro merito suo lo scorporo), la stessa di quando nel 2004 Marchionne arrivò: nel business dell’auto non esistono né Boogeyman, né Mandrake. Siamo all’ultimo miglio, lasciamolo lavorare in pace, la fusione e l’Ipo (quotazione a Wall Street) saranno il grande successo della sua vita, il “massaggio” sul titolo è cominciato da mesi, le banche d’affari coinvolte tra poco inizieranno il classico battage finale, tipo quotazione Facebook (e si divideranno ricche commissioni), gli investitori storici esulteranno, i pavidi come me si sfileranno. E l’Italia? Nel 2004, oltre ad avere ancora un’eccellente industria della componentistica, era 11esima al mondo fra i produttori di auto, ora è 22esimo: i numeri ci inchiodano alla nostra dabbenaggine colta. Questo finale di Fiat Auto era prevedibile fin dal 2004, chiaro fin dal 2009, quattro gatti ne scrissero a lungo e in dettaglio, curiosamente allora nessuno volle prestar loro un minimo d’attenzione. E’ triste assistere, impotenti, alla deindustrializzazione del proprio paese, specie di quella che è l’industria delle industrie, l’auto, e in parte dell’automotive, che ne è corollario.
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