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Economia

Marchionne a Repubblica: Manterrò Fiat in Italia , Non vedo niente sul mercato fino al 2014

Redazione Quotidiano Piemontese

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In una intervista a Enzo Mauro su Repubblica di oggi Sergio Marchionne sostiene: “Manterrò Fiat in Italia con i guadagni fatti all’estero, risponderò al governo, ma ognuno faccia la sua parte. Sta succedendo esattamente quello che avevamo detto alla Consob un anno fa. Ho dovuto ripeterlo perché attorno a Fabbrica Italia si stava montando una panna del tutto impropria, utilizzando il nome della Fiat per ragioni solo politiche: a destra e a sinistra, perché noi siamo comunque l’unica realtà industriale che può dare un senso allo sviluppo per questo Paese. Capisco tutto, ma quando vedo che veniamo usati come parafulmine, non ci sto, e preferisco dire la verità.
I passi salienti dell’intervista a Marchionne.

La paura è che stia scappando lei, dottor Marchionne. Bassi investimenti in Italia, zero prodotti nuovi. Non è così che muore un’azienda che ha più di cent’anni di vita?
«Mi risponda lei: se la sentirebbe di investire in un mercato tramortito dalla crisi, se avesse la certezza non soltanto di non guadagnare un euro ma addirittura — badi bene — di non recuperare i soldi investiti? Con nuovi modelli lanciati oggi spareremmo nell’acqua: un bel risultato. E questa sarebbe una strategia manageriale responsabile nei confronti dell’azienda, dei lavoratori, degli azionisti e del Paese? Non scherziamo».

Ma lei guida la Fiat dal 2004. Molti, come Diego Della Valle, dicono che è colpa sua. Cosa risponde?
«Che tutti parlano a cento all’ora, perché la Fiat è un bersaglio grosso, più delle scarpe di alta qualità e alto prezzo che compravo anch’io fino a qualche tempo fa: adesso non più. Ci sarebbe da domandarsi chi ha dato la cattedra a molti maestri d’automobile improvvisati. Ma significherebbe starnazzare nel pollaio più provinciale che c’è, davanti ad una crisi che ci sfida tutti a livello mondiale. Finché attaccano me, comunque, nessun problema. Ma lascino stare la Fiat, per rispetto e per favore».

Ma lei dopo cent’anni di storia intrecciata tra la Fiat, Torino e l’Italia, con creazione di lavoro e di ricchezza ma anche con un forte sostegno dello Stato, non sente oggi un dovere di responsabilità nazionale?
«Scusi, se il quadro è quello che le ho fatto, e certamente lo è, si immagina cosa farebbe qualunque imprenditore al mio posto? Cosa farebbe uno straniero, in particolare un americano, un uomo d’azienda con cultura anglosassone? Dovreste rispondervi da soli ».

Cala il mercato europeo, ma dentro quel mercato Fiat crolla molto più di altri. Perché?
«Perché il mercato italiano per noi è assolutamente preponderante, pesa più di quello degli altri Paesi messi insieme: e il mercato italiano e spagnolo sono quelli che hanno perduto di più. Non è un’equazione troppo difficile».

Ma la rinuncia a nuovi modelli non è una resa, una rinuncia al mestiere e a stare sul mercato?
«Con un modello nuovo, nelle condizioni di oggi, magari avrei venduto trentamila macchine di più, glielo concedo. Ma Il lavoro ‘‘Puntavo sulla riforma del mercato del lavoro e invece sul tavolo ho 70 cause aperte dalla Fiom».

È anche colpa degli incentivi, che hanno spinto a comprare senza necessità?
«Sono stati una droga, non c’è dubbio».
Ma ne avete beneficiato largamente anche voi, non ricorda?
«Ne abbiamo beneficiato tutti, noi, i francesi, i tedeschi. Hosempre pensato che la droga avrebbe tramortito il mercato.Pensi che vendevamo un “Cubo” a metano a meno di 5 mila euro,4.990: drogato al massimo».

Siete specializzati in utilitarie: non c’è l’idea di un’auto per la crisi?
«I modelli non invecchiano bene. Io posso lanciare la migliore automobile in un momento di mercato tragico come quello attuale, senza ottenere risultati: ma due anni dopo, quando magari le condizioni di mercato cambiano, quel modello è vecchio, e i soldi del mio investimento non li riprendo mai più».

E quando vede un cambio di mercato?
«Fino al 2014 non vedo niente. Per questo investire nel 2012 sarebbe micidiale. Salvo che qualcuno mi dica che per noi le regole non valgono. Ma deve mettermelo per scritto. Perché quando siamo entrati in Europa, non sono solo saltate le frontiere, è saltata anche l’abitudine di fare un po’ di svalutazione nei momenti di crisi. Ora questo lusso non c’è più, e finché Monti e Draghi hanno le mani sul timone, per fortuna dall’euro non usciremo. E allora, dobbiamo rispettare le regole».

Ma anche Romiti sostiene che lei ha colpe precise, ha letto?
«Mi dispiace, ma il mondo Fiat che abbiamo creato noi non è più quello di Romiti. E anche la parola cosmopolita non è una bestemmia, come sembra intendere qualcuno. È l’unica salvezza che abbiamo. Ancora una cosa: io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri».

Ma lei si rende conto che il lavoro oggi è il primo problema dell’Italia?
«Sì, da qui la mia responsabilità nei confronti del Paese, che va di pari passo con quella nei confronti dei miei azionisti. Ma “repubblica fondata sul lavoro” vuol dire anche essere competitivi, creare occupazione attraverso sfide e competizioni. Questa cultura da noi manca».

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