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Cultura

Saviano e Fazio fanno il record di La7. Un po’ di Torino nel successo di Quello che (non) ho

Davide Mazzocco

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È andato tutto come previsto, con la scaletta che Roberto Saviano, Fabio Fazio e la truppa di Quello che (non) ho avevano anticipato al Salone del Libro domenica scorsa. Dopo aver fatto crollare ogni record di ascolto su Raitre l’anno scorso con Vieni via con me, la premiata ditta S&F, in diretta dalle Ogr di Torino, ha surclassato ogni primato di La7, la rete che nelle ultime stagioni ha saputo portare una ventata d’aria fresca nel panorama televisivo sclerotizzato da trent’anni sul duopolio Rai-Mediaset. I dati auditel parlano chiaro: 3.036.388 di telespettatori, 8.957.818 contatti e un picco di share del 18,45% alle 24.11 e di 4.156.000 spettatori alle 22.13.

Un successo? Un miracolo se si pensa alla qualità della scrittura televisiva e degli ospiti, alle tre ore di durata del programma e al fatto che La7 non fa parte dei due grandi gruppi televisivi nostrani. Rispetto a Vieni via con me è cambiato… il titolo. La formula proposta è stata la stessa: le enumerazioni tanto care a Fazio, gli empatici monologhi di Saviano e l’ironia degli autori Francesco Piccolo e Michele Serra. Si è parlato dei suicidi degli imprenditori, delle logiche perverse dell’indebitamento generate da un’economia inquinata dalla criminalità organizzata, della tragedia di Beslan, con la quale si è sfiorato l’indicibile. Intorno a un fuoriclasse della divulgazione come Roberto Saviano, capace di dire nel modo giusto e con il giusto tono cose che si possono trovare nei reportage di molti giornalisti non mainstream, la Endemol ha costruito una squadra di comprimari eccezionali, basti pensare a Pierfrancesco Favino e a Francesca Inaudi, a Luciana Littizzetto, comica che gode ormai di una totale “impunità” sul politicamente scorretto, a un personaggio poco televisivo come Erri De Luca col quale si è forse toccato l’apice della serata (al netto degli interventi di Saviano).

Nelle torinesi Officine Grandi Riparazioni Quello che (non) ho ha trovato uno spazio ideale, una cattedrale laica della parola laica, non esente da qualche stereotipo e da un’enumerazione molto spesso radical chic. Il rischio grosso di un’operazione del genere che contribuisce comunque a elevare (e di molto) il linguaggio televisivo è quello di creare un sacrario un po’ manicheo in cui “morettianamente” si dicono tante belle cose di sinistra. In mezzo a tanta buona televisione che ricorda per scrittura e intelligenza la Rai dell’epoca pre-Mediaset, non mancano scivoloni come la chiusa da scuola elementare di Piero Pelù dopo l’intervento musicale dei Litfiba o il sovradosaggio rabelesiano della Littizzetto poco a tono con un finale serissimo e sacrosantamente arrabbiato sulla violenza sulle donne. Per il resto ce ne fossero di programmi come questo e forse non è un caso che lo studio della trasmissione sia accanto alla mostra Fare gli italiani: Quello che (non) ho è un buon contributo a farci un po’ migliori, noi italiani, attraverso il rispetto che si deve alle parole.

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