Cultura
Il ricordo di Piero Gobetti, morto a Parigi il 15 febbraio del 1926
Il 15 febbraio del 1926 moriva a Parigi (lui, che non voleva fare l'”esule”, ma rimanere in Italia) l’intellettuale antifascista Piero Gobetti. Nato a Torino il 19 giugno del 1901, negli ultimi anni di vita soffrì di scompensi cardiaci provocati e aggravati dalle ripetute violenze degli squadristi. Fondò e diresse le riviste Energie Nove, La Rivoluzione Liberale e Il Baretti.
Così lo descrisse Carlo Levi: “Era un giovane alto e sottile; disdegnava l’eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta da modesto studioso; i lunghi capelli arruffati, dai riflessi rossi, gli ombreggiavano la fronte e gli occhi vivissimi, così penetranti che era difficile sostenerne lo sguardo a chi non fosse ben sicuro di sé”.
QP lo vuole ricordare riproponendo uno dei suoi scritti più interessanti, “La lotta politica in Italia” (La Rivoluzione Liberale, 1924):
Mentre falliva prima di nascere il liberalismo dei conservatori che poteva avere la sua sede storica nell’economia del Mezzogiorno, le avanguardie del Nord erano tratte dall’immaturità della lotta politica e dei costumi nazionali a rinnegare il loro programma naturale di individualismo e di liberismo. Tra industria e liberalismo veniva a scavarsi un abisso che pretesero di trasportare addirittura nel campo della teoria e della sociologia. Invece il liberalismo non si esaurisce evidentemente nel liberismo, ma tuttavia lo comprende e lo presuppone.
Senza cedere al vezzo di semplicistiche e chiuse definizioni si può ritenere che la passione e la coscienza di libertà e di iniziativa (che sono i concetti centrali di una teoria e di una pratica liberale) trovino naturale alimento in una vita economica spregiudicata senza essere avventurosa, capace di fortificarsi di fronte agli imprevisti della realtà senza rigidi attaccamenti a sistemi di sorta, agile e nemica della quiete provinciale e nazionalista, capace di tenere il suo posto per fecondità di produzione e di intrapresa nell’equilibrio della vita mondiale. Questa è poi, se ben si cerca, la morale dell’individualismo economico che ha avuto i suoi testi e le sue esperienze nei paesi anglo-sassoni i quali ci diedero gli albori della modernità . Nel nostro secolo il primo insegnamento dell’industria dovrebbe consistere nella dimostrazione di uno spirito e di una necessità non grettamente nazionali, ma europei e mondiali; da questi orizzonti ormai l’attività inventrice e produttrice degli uomini non può più prescindere.
Invece la nuova economia italiana nel Nord sorgeva come industria protetta rinnegando ogni senso di dignità . In trent’anni di polemica i nostri liberisti hanno avuto tempo e possibilità di dimostrare con calcoli e cifre tutti i danni economici del protezionismo doganale. Ridiscutere la questione in sede di economia parrebbe un anacronismo. Gli i studi e gli ultimi dati non hanno concluso in nessun punto di vista nuovo, ma si sono limitati a confermare che la vita nazionale contrae, aderendo al protezionismo, un pessimo affare. Ma è ora di affrontare gli argomenti protezionisti nel loro stesso campo prediletto, dimostrando i danni politici del loro sistema, che ha inaugurato in Italia un’epoca di corruzione e di decadenza nei costumi del proletariato e della borghesia.
L’elevazione morale degli operai era negata inizialmente dall’umiliazione di dover limitare propositi e ideali intorno a un problema di disoccupazione; la borghesia per salvarsi dall’errore delle premesse doveva cercare dei complici e pagare con una politica di concessioni la sua tattica di sfruttamento dell’erario. Così venivano a mancare i due nuclei essenziali di reclutamento per un partito liberale d’avanguardia che tendesse a rinnovare la vita politica facendovi affluire continuamente nuove correnti libertarie disciplinate intorno a una morale di autonomia. La parola d’ordine delle classi inferiori era la ricerca di un sussidio. Il krumiraggio non era che un simbolo dell’immaturità desolante dello spirito proletario e della psicologia primitiva, da corsari e da speculatori schiavisti, delle classi industriali. Per l’inconsistenza dei fini non si poteva costruire la fibra dei combattenti. All’individualismo si sostituiva la morale della solidarietà , una specie di calcolata complicità nel parassitismo.
La nuova critica liberale deve differenziare i metodi, negare che il liberismo rappresenti gli interessi generali, identificarlo con la lotta per la conquista della libertà , e con l’azione storica dei ceti che vi sono interessati. In Italia, dove le condizioni sia economiche che politiche sono singolarmente immature, le classi e gli uomini interessati a una pratica liberale devono accontentarsi di essere una minoranza e di preparare al paese un avvenire migliore con un’opposizione organizzata e combattiva. Bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, liberali i nazionalisti e i siderurgici, interessati al parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né gli agricoltori latifondisti che vogliono il dazio sul grano per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative. Poiché il liberalismo non è indifferenza né astensione ci aspettiamo che per il futuro i liberali, individuati i loro nemici eterni, si apprestino a combatterli implacabilmente.
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