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Alessandria

Eternit. Nessuno mi toglierà mai dagli occhi

Davide Mazzocco

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Nessuno mi toglierà mai dagli occhi il giorno freddo del dicembre di due anni fa in cui ho scoperto la ferita di Casale Monferrato camminando nelle sue vie, parlando con la sua gente, scoprendo un pacco di residui di amianto abbandonato sulla riva del canale Mellana. Quel giorno Romana Blasotti Pavesi mi ha raccontato la sua storia, mi ha spiegato come questa dannata polvere milletrecento volte più sottile di un capello si sia inghiottita la parte migliore della sua vita: suo marito, sua sorella, sua cugina,  suo nipote e, infine, sua figlia. Di quel giorno ricordo il vigore della sua voce, la lucidità e una frase – “Io non so più piangere” – che mi è poi tornata in loop ogni volta che ne ho incrociato lo sguardo battagliero nelle aule del Tribunale di Torino. Quasi che il dolore gli avesse creato gli anticorpi per sconfiggere ogni benché minima debolezza, Romana è diventata non solo la presidente dell’Afeva ma il simbolo vivente del processo Eternit, della voglia di giustizia dei cittadini casalesi.

In questo processo un ruolo determinante lo ha avuto anche Bruno Pesce. È lui la persona che più di ogni altra ha fatto da trait d’union fra le vittime e gli avvocati dell’accusa ed è lui che ha avuto – per i quasi tre anni del processo torinese – il polso della situazione stimolando al confronto le istituzioni, rapportandosi con i vari comitati europei ed extra-europei e con la stampa. In tutto questo tempo mai e poi mai mi è capitato di scorgere in Bruno Pesce, rabbia o frustrazione. Mai. Con la sua mite fermezza e la sua incrollabile fiducia in un esito positivo della vicenda, Pesce ha rappresentato un punto di riferimento per tutti i famigliari delle vittime. Anche nei momenti più burrascosi, anche quando il Comune di Casale Monferrato – per fortuna solo temporaneamente –  ha deciso di accettare l’offerta dall’imputato Stephan Schmidheiny, Pesce non ha mai perso il proprio aplomb “britannico”, quasi fosse sicuro che quarant’anni di battaglie avrebbero dato i loro frutti in Tribunale.

Difficilmente dimenticherò la commozione nella voce di Nicola Pondrano, il timore, manifestato davanti ai giudici, di aver portato questa polvere traditrice nelle stanze abitate dalla sua famiglia. Né dimenticherò mai la voce incrinata dalla commozione del pm Sara Panelli durante una requisitoria. In questo articolo che mi esce strano dalle dita perché è una sorta di diario scoperchiato all’esterno, non può mancare Raffaele Guariniello, persona che ha sostenuto e continua a sostenere battaglie per la salute pubblica anche a costo di risultare impopolare o di sentirsi dire di essere alla ricerca di visibilità con i suoi attacchi ai poteri forti. Come se attaccare i poteri forti fosse facile in una società compromissoria e compromessa come la nostra. Come se non fosse proprio attraverso la resistenza ai poteri forti che si crea una  società migliore. “Questa è la mia utopia: aiutare i più deboli” ha detto Guariniello ad Alberto Papuzzi in un libro intervista uscito qualche mese fa. E ieri, infatti, uscito dall’aula ha definito “un sogno” il verdetto emerso dopo quasi tre anni di processo. L’utopia di aiutare i più deboli una volta tanto si è realizzata, quella scritta immanente sui giudici – “La legge è uguale per tutti” – non è mai sembrata così vera come ieri e, in una dozzina d’anni a battere sulla tastiera e a raccontare, non mi sono mai ritrovato al cospetto di persone per le quali sia così facile – senza nessuna retorica, senza nessun timore di risultare inadeguato – spendere la parola “eroi”.

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