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Cultura

Marco Risi: “Con un thriller racconterò l’Italia di oggi”

Davide Mazzocco

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Porta il cognome di uno dei padri della commedia all’italiana, quel Dino Risi che descrisse l’Italia mescolando risate e malinconia, intrattenimento e riflessione, ma lui, Marco Risi, la realtà l’ha indagata senza filtri con film di denuncia che hanno suscitato dibattiti e che sono stati sceneggiati (anche) da giornalisti. Non è un caso che nell’anno in cui il Sottodiciotto Filmfestival ha deciso di scegliere come filo conduttore della rassegna il tema della legalità la Targa Città di Torino vada al sessantenne regista milanese che ha fatto dell’impegno civile, sociale e politico la propria cifra stilistica. Ideale continuatore del genere che in Italia ha avuto il massimo rappresentante in Francesco Rosi, Risi è uno dei registi più abili nel maneggiare la società in cui viviamo raccontando storie che restano indelebili nella memoria.

Lei è ed è stato regista, produttore e sceneggiatore qual è il ruolo che ama di più?

L’esperienza come produttore è durata poco perché ho perso tutto molto presto. L’unico film che è andato bene e ha portato fortuna al suo regista è stato Il bagno turco di Ferzan Ozpetek. Sono contento dell’esito che ha avuto la sua carriera. L’attività di regista è faticosa. Sei un nostromo che corre il rischio dell’ammutinamento anche se devo dire che, fortunatamente, non mi è mai successo. Ho rischiato solamente con Mery per sempre quando stavo per essere rimosso dal produttore che si era convinto che stessi facendo un brutto film…  Nel film che ho in preparazione ho lavorato alla sceneggiatura con James Carrington e Andrea Purgatori ma alla fine ho preso io il timone. Forse è proprio la fase della scrittura quella che mi piace di più ma sono abituato a lavorare con altri. Non credo che sarei capace di scrivere una sceneggiatura da solo, mi occorre lo scambio con gli altri, vedere la reazione immediata alla scrittura di una scena. Per altri registi la fase più stimolante è quella della post produzione che io ritengo delicatissima perché se hai un buon girato puoi rovinarlo con un cattivo montaggio, mentre difficilmente con un cattivo girato puoi salvare la pellicola al montaggio.

In due dei suoi film più noti, Muro di gomma e Fortapasc lei ha lavorato insieme ad Andrea Purgatori. Come lavora con gli sceneggiatori e, nello specifico, con un giornalista?

Il progetto di Muro di gomma era di Maurizio Todesco e io sono intervenuto solamente in un secondo tempo. Andrea Purgatori è il giornalista che ha maggiormente seguito la vicenda, sulle pagine del Corriere della sera. Fu a lui che arrivo la telefonata di un controllore di volo che disse che l’aereo era stato buttato giù. La sceneggiatura di Muro di gomma fu firmata anche da Sandro Rulli e Stefano Petraglia coi quali avevo già lavorato in Mery per sempre ma intervenni anch’io, senza comparire, per aggiustare alcune cose.

In entrambi i film si respira l’atmosfera di una redazione con un realismo più unico che raro nel cinema italiano.

Questo è merito mio… (Ride) Mi sono sempre piaciuti i film americani che parlano di giornalismo. In Fortapasc, poi, c’è il passaggio dalla redazione di corrispondenza a quella centrale che è anche segnata da un’evoluzione tecnologica: il passaggio dalle macchine da scrivere ai primi computer.

Lei ha fatto film di grande impegno e altri più leggeri.

I giornalisti hanno sempre il desiderio di catalogare i registi. Probabilmente dopo Mery per sempre, Ragazzi fuori e Muro di gomma mi sarebbe convenuto farmi etichettare come regista impegnato ma a me piace sbandare. Inoltre, fare una commedia e farla bene è tutt’altro che facile. A me piace essere serio su alcune cose e divertirmi sulle cose serie.

Diego Armando Maradona, Giancarlo Siani, Bernardo Provenzano, la sua filmografia recente è una galleria di ritratti.

Quando si gira un film su di un personaggio contemporaneo c’è una grossa difficoltà: ci può essere sempre qualcuno che ha conosciuto il protagonista davvero e può dire che non era o non è così come tu lo hai rappresentato. Mi è capitato con Siani: c’era chi diceva che andava alle partite e chi diceva che non ci andava, per alcuni fumava per altri no. Per fare un po’ di chiarezza ci sono volute le lettere della sua fidanzata Chiara Grattoni. Leggendole ho scoperto che Siani aveva raccolto talmente tanto materiale da poter scrivere un libro. La decisione di ucciderlo era stata presa a giugno e lui morì a settembre. Perché così tanto tempo? Perché le sue indagini sulla camorra lo stavano portando a scoprire retroscena relativi al voto di scambio e alla ricostruzione post-terremoto.

Che cosa ne pensa di Torino, sempre più città del cinema?

Mi piace anche se devo ammettere di non conoscerla molto bene. Piace molto a Dario Argento. Qui abitava Rol, un amico di Fellini che per un suo consiglio rinunciò a girare un film. Una città misteriosa, austera. È bella ma è come se non volesse farsi scoprire. Tutto il contrario di Roma che è aperta, slabbrata e un po’ cialtrona.

È al lavoro su di un nuovo film che cosa può raccontarci?

Sto ultimando la preparazione di un film che inizierò a girare il prossimo 30 gennaio. Si tratta di un thriller con un detective, Luca Argentero, che indaga su tre morti che sembrano accidentali e si rivelano omicidi. Ci sono la politica, le intercettazioni, foto rubate, i poteri forti, c’è una donna bellissima. Si possono dire cose sul proprio Paese anche con un thriller. E il mio prossimo film ha, come punti di riferimento, Chinatown e I tre giorni del condor.

Quali sono stati i suoi maestri?

Il film che mi ha cambiato la vita è stato Il posto di Ermanno Olmi. Avevo all’incirca 11 anni ed ero abituato a vedere film di genere, western, gialli, gangster e quel piccolo film intimista mi segnò. Ho amato molto De Sica e, solo successivamente, Fellini. Il più grande credo sia stato Billy Wilder per la naturalezza nel passare dalla commedia al dramma. Oggi nel cinema c’è un abuso del movimento di macchina che serve più che altro a confondere le idee; Wilder, invece, sapeva muovere gli attori. Oggi con l’utilizzo del monitor i registi stanno a 20 metri dagli attori ma io continuo a girare accanto alla macchina da presa perché gli attori devono sentire la tua presenza. Quando finiscono una scena devono individuarti con uno sguardo e capire come sono andati. Ricordo quando Alberto Sordi venne a trovarmi sul set de L’ultimo capodanno e mi trovò dietro il monitor. Mi disse: “Che te sta a guardà er televisore?”

Lei ha sempre avuto un occhio di riguardo per le situazioni di disagio. Che cosa ne pensa di quanto è accaduto negli scorsi giorni nel campo nomadi della Continassa?

È incredibile come basti così poco per scatenare conseguenze così gigantesche. Basta davvero poco perché in molti siano pronti a reagire contro qualcuno che è più debole e può pagare più facilmente. Ma mi ha interessato anche il movimento psicologico della ragazza e il ruolo del caso, dell’incontro con il fratello che ha fatto scatenare il tutto.

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