Cultura
L’incendio del Regio, quando la sopravvivenza si sconta vivendo
A 35 anni dall’uscita per i tipi di Einaudi L’incendio del Regio di Mario Lattes ritorna in libreria per iniziativa di Marsilio. Un’operazione coraggiosa che fa il paio con la grande vitalità della Fondazione Bottari Lattes che ne ricorda – programmaticamente – il suo eclettismo europeo e anticonformista e con la recente mostra torinese dedicata alla sua attività pittorica. Dopo sette lustri questa autobiografia mascherata da romanzo non solo non risulta datata ma assume i connotati di classico. La scrittura di Lattes, meditatamente informale e colloquialmente barocca, è uno di quei pezzi pregiati di letteratura novecentesca seppelliti dall’oblio a causa della lacunosa curiosità della critica, poco avvezza ad allontanarsi dalle congreghe e guardinga nei confronti di chi manda a carte quarantotto l’egemonia del plot. I personaggi dei romanzi di Lattes sono, come suggerisce Ernesto Ferrero nella prefazione – “borghesi inetti, al pari degli eroi di Svevo” e, ancora, “uomini senza qualità, incerti della propria identità”. Le inquietudini che si ritrovano nell’attività pittorica di Lattes si rispecchiano in una letteratura fortemente introspettiva e meditata, lenita da uno stile di scrittura agile e ritmico affine più alla letteratura d’Oltreoceano che alle ipotattiche della letteratura europea. Anche la cronologia si sfalda in un magma interiore nel quale memoria e sogno, immaginazione e realtà si confondono senza soluzione di continuità.
Ideale prosecuzione del Bildungsroman Il borghese di ventura che descriveva l’esperienza di rifugiato in Lazio e poi quella di interprete per gli Alleati durante la risalita della Penisola, L’incendio del Regio descrive il ritorno alla normalità dopo la Seconda guerra mondiale. Una normalità che non fa sconti e nella quale il peso del passato procura altro dolore: “Nella vita ci sono gli Altri. È fatta degli Altri, la vita. Si tratta di tenere la testa fuori, riuscire a respirare, non fanno mica complimenti, loro. I genitori servono a questo: che li rappresentano, gli Altri, così, in forma familiare, adatta a far capire a un bambino. Io invece ho dovuto riconoscermi subito da me mentre ancora non c’ero”. Una scrittura, quella di Lattes, che si fa beffe dei luoghi comuni, degli stereotipi: “Fate attenzione agli occhi, dico io, che sono lo specchio dell’anima, sentite le loro parole che sono lo specchio degli occhi”. L’ironia è l’uscita di sicurezza. Certi squarci sono laconicamente profetici: “C’era da credere che la televisione non dovesse attaccare, almeno coi più vecchi, ed eccoli lì, lividi in faccia, appiccicati alla loro scatola, o a quella del vicino”. La guerra continua anche dopo la guerra, la sopravvivenza si sconta vivendo. La sofferenza, ora, è fra le mura domestiche, nella distanza che lo separa da Lu o dalla figlia che non ha nome ma viene chiamata, molto semplicemente, “la bambina”. In un momento cruciale l’autore si mette a nudo squarciando il velo opaco del patto col lettore: “Questo non è un romanzo, è una confessione”. Ovverosia il genere egemone del secolo scorso. Ed è per questa sua universalità che il libro di Lattes, a dieci anni dalla sua scomparsa, ha ancora molto da dire.
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