Cittadini
Internet? Il modo migliore per mandare a casa i governi. Parola di Derrick De Kerckhove
Che c ‘entra Pinocchio con Facebook? E che c’entra Julian Assange (il padre di Wikileaks) con la rivoluzione dei gelsomini? Tout se tient (tutto sta insieme), come spiega Derrick De Kerckhove, uno tra i massimi esperti mondiali di mezzi di comunicazione. C’è un filo rosso che lega i social network e la primavera araba. Twitter è l’esempio più lampante. Nato per registrare brevi chiacchiere (‘twit’ in inglese significa ‘scemo’) si è trasformato in un modo per mandare via “gli scemi al potere”. Lo hanno usato i ragazzi tunisini, poi quelli di piazza Tahrir e infine i giovani spagnoli di Puerta del Sol. Anche Wikileaks, a modo suo, è l’espressione di un cambiamento. “Le generazioni digitali stanno sperimentando un nuovo modo di gestire le transizioni politiche. E forse, sul loro esempio, un giorno la gente userà la rete per riprendersi il potere. Come ai tempi della rivoluzione francese, ma senza ghigliottine e decapitazioni”.
De Kerckhove interviene a Torino nell’ambito degli Stati generali della cultura popolare. La sua chiacchierata-intervista con la giornalista Anna Masera dovrebbe trattare il tema dell’oralità ai tempi del web, ma presto il discorso si allarga. Nonostante certe dichiarazioni entusiastiche, De Kherckhove non è certo un “fanatico” della tecnologia. Anzi, confessa che la sera preferisce avere in mano un libro di carta anziché un e-book. Le sue riflessioni prescindono da ogni giudizio morale. I media non sono da idolatrare, né da condannare: “L’unica scelta è vedere che succede”. Questo studioso cresciuto tra Belgio e Canada, cosmopolita per vocazione (il suo italiano accoglie prestiti da almeno quattro lingue diverse) è considerato l’erede di Marshall McLuhan, il primo “profeta” dei nuovi media. Pensando a McLuhan viene subito in mente la frase “medium is message” (il mezzo è il messaggio), un’espressione ormai così abusata da aver perso ogni senso. Ecco perché De Kerckhove ci tiene a riportare l’attenzione sul pensiero del maestro. Già nel 1961, quando internet era un sogno, McLuhan parlava di un nuovo media che “non sarebbe stato contenuto nella tv, ma l’avrebbe contenuta in sé, avrebbe reso obsoleta l’organizzazione delle biblioteche e sviluppato in ciascuno il potenziale enciclopedico”. Basta pensare al Web 2.0, a Youtube e Wikipedia per capire che McLuhan aveva, come si suol dire, fatto centro.
Certo, un sistema di connessione globale ha anche i suoi rischi. Siamo sempre reperibili, quindi schedati e controllati, “come il capo della rivolta cecena, braccato dai Russi che hanno intercettato il suo telefonino”. Poi c’è il rischio di impigrirci, delegando le nostre decisioni a strumenti sempre più complessi, che usiamo senza sapere come siano fatti. “I-phone, I-pad e, più in generale, tutti i prodotti altamente tecnologici a molti appaiono come oggetti magici. Da qui credo dipenda il successo di Harry Potter, una storia di magia contemporanea”. Presi nel vortice di pc, tv e social network noi siamo “dei Pinocchio 2.0”. Lo studioso interpreta la favola del burattino in senso antropologico. “Ai tempi di Carlo Collodi, molti lasciavano la Toscana per andare a lavorare nelle fabbriche del Nord Italia. Lì si disumanizzavano e quando ritornavano a casa non sapevano più chi erano. Per questo Pinocchio deve entrare nel ventre della balena (una grande madre metaforica) per smettere di essere macchina e ridiventare uomo”. Lezione ancora valida ai nostri giorni.
Quindi il recupero del passato e della tradizione – azzarda qualcuno dal pubblico – ha ancora un significato nell’era dell’elettronica. “Sì, certamente – conferma De Kerckhove – Con il computer e la tecnologia 3d si possono ottenere meravigliose ricostruzioni di Pompei. Ma questo non ci esime dal dovere di recuperare la Pompei storica”. La riflessione si può estendere alla sfera sociale. Insomma, anche se presto avremo avatar, doppi digitali e copie ultratecnologiche di noi stessi, i rapporti umani ‘in carne e ossa’ non diventeranno obsoleti. E allora non stanchiamoci di coltivarli
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