Cronaca
Sequestrati beni per 117 milioni di euro e 170 società. Ma la ‘ndrangheta si finge povera
Le indagini hanno svelato la presenza di nove locali di ‘ndrangheta tra Torino e provincia. La Natilie di Careri, in Torino città, e poi Rivoli, Chivasso, Moncalieri, Nichelino, Cuorgné, Volpiano e San Giusto. A queste si deve aggiungere la locale di Siderno che, pur radicata in Calabria, aveva ramificazioni diretti a Torino ed era guidata da Giuseppe Catalano. C’é poi la “bastarda”, una sorta di locale in prova, che ancora non aveva ricevuto tutti i diritti per essere riconosciuta, un soggetto nascente che testimonia la dinamicità della ‘ndrangheta piemontese.
Una dinamicità che non si svela con atteggiamenti “sopra le righe”. Tutti gli affari della ‘ndrangheta sono condotti sotto traccia, senza esibizioni. A dirlo è il procuratore aggiunto Perduca, che spiega come all’attività di polizia si sia affiancata quella della Guardia di Finanza di Torino e dei reparti dello Scico di Roma, specializzati nel contrasto alla criminalità organizzata. I numeri del sequestro sono da capogiro: ville, appartamenti, autorimesse, veicoli, quote societarie e aziende per 117 milioni di euro. Non si pensi però ad auto di lusso o ville hollywoodiane, la ‘ndrangheta vuole passare inosservata. Per questo il lavoro delle Fiamme Gialle è stato difficile, e c’era la necessità di non destare sospetti negli indagati. “Si è trattata di una corsa contro il tempo” ha detto Perduca. “Gli accertamenti si sono svolti in tempi estremamente contratti, e sono iniziati verso fine 2010 quando le indagini dei carabinieri si sono tradotte in richieste di custodia cautelare. C’era la necessità di colpire i clan su due lati, quello di polizia e quello finanziario, in modo da togliergli ogni possibile rendita”.
A finire sotto la lente dello Scico circa 170 società e imprese, ben 123 indagati assieme a 333 familiari conviventi per un totatle di 600 soggetti. I sigilli sono stati posti su 10 aziende e su più di 200 conti correnti e diverse cassette di sicurezza. Tra gli indagati c’erano imprenditori, operai, piccoli commercianti, persino pensionati, tutti con un tratto comune: non ostentare un’eccessiva ricchezza per non tradire l’effettività e l’origine criminale dei loro averi.
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