Cultura
Salone del Libro. Cent’anni di Frisch, lo scrittore dell’identità
Domenica prossima – 15 maggio – in Svizzera verrà festeggiato il Centenario della nascita di Max Frisch, il più importante scrittore svizzero del Novecento e uno degli intellettuali più influenti del Paese dei Quattro Cantoni. Il 2011 in realtà è un doppio anniversario in quanto lo scorso 4 aprile si è celebrato il ventennale della scomparsa dell’autore di Homo Faber, Stiller e Il mio nome si Gantenbein. Ecco perché, quest’oggi, il Salone del Libro ha deciso di rendergli omaggio con un incontro al quale hanno preso parte i suoi editori italiani e ticinesi Inge Feltrinelli e Libero Casagrande, il giornalista della Rete Svizzera Italiana Enrico Lombardi e il critico Luigi Forte. Nel corso dell’incontro organizzato in concomitanza dell’uscita di Frammenti di un terzo diario per i tipi delle Edizioni Casagrande sono stati proiettati alcuni spezzoni del documentario Max Frisch, citoyen.
Intellettuale engagé, straordinario scrittore ossessionato dal tema dell’identità, drammaturgo rivoluzionario nello scardinare la struttura della narrazione teatrale, Frisch è stato, proprio in virtù della sua perpetua ricerca di nuove frontiere, uno sperimentatore. Affettuoso è stato il ricordo di Inge Feltrinelli non solo sua editrice ma addirittura vicina di casa nel suo periodo romano: “Quando viveva con Ingeborg Bachmann lei si alzava alle 2 del pomeriggio e lui mi parlava della difficoltà di abituarsi a quei ritmi: ‘Io sono uno svizzero normale’ mi diceva. Era un uomo austero ma ricordo che fu così impressionato dalla riduzione cinematografica di Homo Faber da regalare la sua vecchia Jaguar al regista Volker Schlöndorff”. Un intellettuale che sentiva fortemente il problema dell’identità. “Già a vent’anni – ha spiegato il critico Luigi Forte – Frisch si interrogava sulla propria identità. In parte questa ossessione nasceva dal suo rapporto problematico e critico nei confronti della Svizzera ma, a livello puramente esistenziale, era legata alla volontà di superare la staticità dell’identità, al desiderio di non mettere mai un punto alla propria vita”. Nei suoi scritti più intimi Frisch parlava di un’utopia capace di magnetizzare la nostra esistenza e di istradarci verso una direzione, un’utopia incapace di “sollevarci da terra” ma necessaria per una quotidianità tesa verso una trascendenza. Impegnato con posizioni per niente allineate nell’ambito del dibattito politico Frisch fu giudicato “un moralista senza il gusto della predica”. Davanti alla contestazione dei giovani, nella Svizzera scossa dalla febbre sessantottina, si interrogò sulle responsabilità dei padri, di quella generazione di cui lui stesso faceva parte. Succedeva quarant’anni fa. E non è certo retorica affermare che scrittori di questa levatura, capaci di “vivere nel secolo” e di ritirarsi, poi, nella solitudine della creazione, si sono perse le tracce.
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