Cittadini
Acqua o sete pubblica? L’incontro della Biennale Democrazia per vederci chiaro sul referendum
Che cosa c’è di più democratico di un referendum? Nell’ultima giornata della Biennale Democrazia, in un incontro tenutosi non a caso fra le statue del Po e della Dora di piazza Cln, alcuni specialisti hanno cercato di fornire alla cittadinanza gli strumenti per capire che cosa comporterà la mancata abrogazione – tramite il referendum del prossimo 12 giugno – della norma del 2009 che impone, entro il 31 dicembre di quest’anno, la cessione del 40% della gestione dell’approvvigionamento idrico a società private. Andrea Giorgis, docente di diritto costituzionale all’Università di Torino, ha introdotto la questione a livello giuridico chiarendo come il nodo fondamentale sia la definizione del “soggetto deputato a trasformare un bene naturale in un oggetto del diritto”. Perché se vi è chi sostiene che l’acqua sia un bene comune e universale cui tutti hanno diritto, vi è anche chi sostiene che l’alto livello di trattamento che richiede il suo iter dalla sorgente al rubinetto debba essere governato da logiche industriali. Chi paga? “I modelli sono due. Il primo scarica i costi sull’intera comunità tramite la fiscalità generale, il secondo applica tariffe a consumo. Con quest’ultimo modello si evitano gli sprechi ma ricchi e poveri pagano lo stesso prezzo. Se, invece, il costo dell’acqua viene scaricato sulla collettività si corre il rischio che l’acqua venga considerata come gratuita da molti e, quindi, sprecata”. Il problema è molto più complesso di quello che sembra. Dario Casalini, ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Torino, pur sottolineando i rischi dell’applicazione di modelli anglosassoni nei nostri sistemi di gestione dell’acqua, chiarisce come non esista – negli ultimi due millenni – una gestione diretta dell’acqua: già nel diritto romano e nel Medioevo l’uso dell’acqua veniva concesso e solamente nella California dei pionieri l’acqua diventava di proprietà di chi arrivava per primo sulle rive di un fiume. Con i casi limite di cercatori d’oro che deviavano i corsi d’acqua per cercare pepite o pagliuzze. Secondo Casalini c’è un’altra questione da considerare: “Le società che hanno avuto in gestione l’acqua non hanno mai pensato a un ammortamento delle infrastrutture che nel corso degli anni sono andate deteriorandosi. E questo debito, parlo da trentenne, ricadrà sulla mia e sulle future generazioni. L’unica certezza che abbiamo è che bisognerà pagare: ciò che va ancora chiarito è se lo faremo con la fiscalità o con le tariffe. Comunque se il referendum non dovesse passare sarà molto difficile tornare indietro, cioè riespropriare alle aziende private ciò che era pubblico. Quando, all’estero, mi confronto con queste problematiche, il quesito che mi sento spesso porre è sempre lo stesso: ‘Che bisogno avete di imporre una legge quando potete scegliere caso per caso?’”
Se si è arrivati al referendum sull’acqua pubblica, molto lo si deve allo sforzo delle mille associazioni che, in giro per l’Italia, hanno raccolto 1 milione e mezzo di firme. A Torino è stata Mariangela Rosolen a coordinare questa preziosa opera di divulgazione del problema: “Quando vedete aumentare la benzina ve la prendete con lo sceicco o con le multinazionali? Sono le multinazionali a far aumentare le tariffe: ad Agrigento, dopo il loro arrivo, i cittadini pagano l’acqua il triplo”. Parafrasando un vecchio slogan femminista – “l’acqua è mia e me la gestisco io” – Rosolen racconta di quanto è avvenuto nel capoluogo toscano: “Qualche anno fa la gestione dell’acquedotto fiorentino è passata in mano a una multinazionale. Poco dopo il Comune di Firenze ha promosso una campagna per il risparmio idrico che ha prodotto comportamenti virtuosi nella cittadinanza. Qual è stata la risposta della multinazionale? Aumentare le tariffe in modo da ripianare il gap economico creatosi”. Nati circa dieci anni fa dopo il successo del movimento della Coordinadora de Defensa del Agua y la Vida che a Cochabamba mandò a casa la multinazionale Aguas del Tunari che vietava ai contadini boliviani persino la raccolta dell’acqua piovana, i movimenti per l’acqua pubblica si sono diffusi capillarmente in tutta Italia. “Sul referendum del 12 giugno – spiega Rosolen – c’è un silenzio tombale. Questo perché, qualora i processi di privatizzazione dell’acqua dovessero avere successo, nelle grinfie delle multinazionali finirebbero 64 miliardi di euro. Anche il mancato accorpamento con le elezioni amministrative è stata una mossa per evitare che si raggiunga il quorum”. Sessantaquattro miliardi di euro in più a carico della cittadinanza che, almeno per questa volta, ha la possibilità di dire di no direttamente. Con un occhio alla coscienza e l’altro al portafoglio.
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