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Cultura

Se la politica è malata, il politichese non sta troppo bene

Davide Mazzocco

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La neolingua della politica è un organismo incancrenito dalla malattia diffusa nel mondo che deve comunicare. È questa la tesi di fondo che Gian Luigi Beccaria e Vittorio Coletti hanno esposto con chiarezza e dati tangibili al Teatro Gobetti, nell’ambito della prima giornata di Biennale Democrazia. I due italianisti hanno affrontato un tema che negli ultimi mesi ha trovato ampio spazio grazie ai saggi di Gustavo Zagrebelsky (Sulla lingua del tempo presente) e di Gianrico Carofiglio (La manomissione delle parole), quello, cioè, dello scadimento del linguaggio nell’arena politica. Va detto che i nostri parlamentari si sono dati molto da fare, nelle ultime settimane, affinché ai due conferenzieri non mancasse materiale su cui soffermarsi. Il professor Beccaria ha esordito mettendo in fila gli sbalorditivi epiteti pronunciati in tempi recenti dai nostri politici, rintracciandone la matrice negli esordi del celodurismo bossiano del lontano ’93. È da quel momento che il turpiloquio inizia a infiltrarsi nelle dichiarazioni pubbliche: se allora la glorificazione della virilità padana poteva apparire sconvolgente, oggi fa parte di un panorama molto eterogeneo in cui un “fora di bal” appare una goccia nell’oceano: “La scena pubblica è stata trivializzata da un linguaggio che non ama la diversità e che, invece di costruire, si concentra solo ed esclusivamente nella demolizione dell’avversario. Quest’anno festeggiamo i 150 anni dell’Unità eppure al governo qualcuno propone di utilizzare il tricolore come carta igienica”.

Beccaria sottolinea come il valore politico delle parole sia cambiato, talvolta con ribaltamenti a 180°: “Anni fa parole come ‘valori’ e ‘patria’ appartenevano alla cultura di destra e ‘proletariato’ e ‘lotta’ facevano parte del vocabolario di sinistra. Negli ultimi mesi l’Inno di Mameli ma anche parole come ‘valori’ e ‘patria’ sono diventate sinistrorse”. Il professore invita a soffermarsi sul linguaggio della sinistra negli anni Settanta: lotta, scontro, presa di coscienza, gestione, impegno teorico, crescere nella prassi, far esplodere le contraddizioni sono solo alcune delle parole o delle frasi fatte di quel politichese su cui Nanni Moretti scherzava nei suoi primi film e che fa tanta tenerezza se paragonato al cafonese di oggi. Diverso, invece, era il linguaggio della Democrazia Cristiana, un impasto di sfumature, ambiguità, detto e non detto: “Cauta sperimentazione, progresso nella continuità, equilibri più avanzati e convergenze parallele”. Pur nell’ambiguità della sostanza, dunque, una sottigliezza e una ricercatezza della forma. Tutto questo crolla quando quel mondo va in pezzi: “Con la Seconda Repubblica si sceglie di abolire i vecchi formalismi, di optare per un linguaggio vivace e popolaresco che gli addetti ai lavori chiamano il ‘gentese’. Ma attenzione – spiega con acutezza Beccaria – perché ciò che è semplice non è per forza di cose trasparente, soprattutto quando si opera nell’ambito di una comunicazione persuasiva”. Le frasi semplici, quindi, diventano frasi fatte. Alcune di queste sono veri e propri grimaldelli psicologici: “Pensate alla frase ‘mettere le mani nelle tasche degli italiani’ che delegittima le tasse assimilandole a un taglieggio a danni del povero cittadino ‘derubato’ dallo Stato”. Fra le prerogative del potere vi è anche quella di “avvelenare” le parole: “Radici, sicurezza e identità sono parole buone e innocenti che, usate male, possono avere effetti estremamente deleteri”. Seguendo questa logica, con un’accurata manipolazione mediatica i termini “assoluzione” e “prescrizione” possono diventare la stessa cosa.

Se Beccaria traccia un profilo dei mutamenti recenti e della fenomenologia del linguaggio politico, Coletti si sofferma con altrettanta acutezza (e non senza una palese amarezza) sull’impossibilità di avere visibilità politica per chi non si adegua a un linguaggio a tinte forti: “Dopo la ‘sgarbizzazione’ del linguaggio politico inaugurata con la campagna elettorale del 2006 si è iniziata a chiamare franchezza la volgarità e a questo abbassamento di livello, pur non raggiungendo gli standard del Giornale e della Padania, si è adeguata anche la stampa di sinistra”. Ma, secondo un’accurata analisi di Coletti, anche una via terza rischia di essere deludente. Lo studioso prende in esame alcuni articoli comparsi sul Corriere della sera e sottolinea gli ardui giochi d’equilibrismo di coloro che vogliano mantenere una posizione terza nei confronti dell’accesa contesa da guelfi e ghibellini degli ultimi anni. Il rischio che corre chi si mantiene linguisticamente sobrio (e, quasi di conseguenza, ideologicamente equidistante) è di passare inosservato. La chiusura è con una domanda: “ Siamo giunti al punto in cui solo chi non avrà vergogna di gridare potrà ancora fare politica?” Si spera che la risposta arrivi prima della prossima Biennale.

 

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