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Società

Gli Inti Illimani e Caparezza nella playlist democratica di Daniele Silvestri

Redazione Quotidiano Piemontese

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Musica e democrazia: questi due aspetti del vivere, a prima vista lontani, sono tenuti insieme da una specie di magnetismo segreto. E’ un legame tanto profondo quanto misterioso: parlarne senza cadere nelle trappole dei luoghi comuni è difficile. Un bel cimento per il cantautore Daniele Silvestri e la giornalista Giovanna Zucconi, impegnati in una chiacchierata-intervista al teatro Carignano, nell’ambito di Biennale democrazia

Silvestri inizia mettendo l’accento su alcune particolarità insite nel discorso musicale. “Prima ancora del testo, che è la componente più razionale, mi interessa il puro suono, quell’onda emotiva che ci fa alzare dalla sedia e battere le mani a tempo, che durante un concerto trasforma la collettività in un corpo unico”. Basta uno sguardo alla storia per accorgersi che la musica, la più istintiva delle arti, ha saputo in mille occasioni dar voce a protesta, dolore, rabbia, speranza: accadeva nell’800 con i canti operai, è accaduto tre mesi fa con i rapper nordafricani della Rivoluzione dei Gelsomini. E poiché i grandi discorsi restano parole se non sono sostenuti dai fatti, Silvestri presenta una sua ideale playlist, raccolta di canzoni simbolo che hanno saputo depositarsi nelle coscienze e dare una piccola (o grande) sterzata alla storia. E’ un elenco eterogeneo che comprende diverse epoche e qualche sorpresa. Nelle posizioni iniziali ci sono gli Inti Illimani: “Li ho ascoltati tantissimo da bambino. Naturalmente non sapevo nulla del Cile, di Allende e Pinochet, eppure quella musica mi dava la sensazione di essere in marcia”. Poi c’è Contessa di Paolo Pietrangeli, canzone del ’69. Silvestri si diverte ad aspettare il ritornello, il cui testo recita “compagni dai campi e dalle officine, prendete la falce portate il martello”. “Ma sei matto… al Carignano? – scherza Giovanna Zucconi – Credo sia la prima volta che in questo luogo si ascoltano canzoni del genere”. In effetti la bomboniera di stucchi e velluti si è trasformata in uno studio radiofonico. Nel giro di pochi minuti si alternano Gabriella Ferri e Bob Marley, Francesco De Gregori e Caparezza (“sono un suo fan – racconta Silvestri, parlando dell’eccentrico collega – mi piace perché non ha paura di fare nomi e cognomi”). Poi Gaber, Battiato e Message in a bottle dei Police (“scusa, ma che c’entra con la democrazia?” chiede la giornalista. “Niente, è solo che avevo voglia di ascoltarla” risponde ridendo Silvestri). Il cantautore fa di tutto per stemperare il clima. Sa che in platea ci sono tanti ragazzi. Cerca di essere contemporaneamente serio e leggero, come quando racconta dei personaggi da reality: “Davanti alla telecamera ci fanno vedere il peggio del peggio, poi commentano ‘Beh, almeno sono stato me stesso’. Andiamo bene… Ecco, non credo che la democrazia sia questo”.

Strano e affascinante percorso musicale quello di Silvestri. Noto ai più per i suoi successi “da radiolina” tipo La Paranza, il cantautore romano ha affrontato anche temi scottanti, come la prigionia (in Aria) o l’omosessualità (in Gino e l’Alfetta). Alcune sue canzoni, L’uomo col megafono, Il mio nemico e Kunta Kinte, sono quasi degli inni alla libertà. Tra una battuta e una tirata d’orecchie alla “meritocrazia della furbizia”, Silvestri regala al pubblico anche alcuni assaggi del suo ultimo lavoro, Scotch, un disco che dà grande spazio alla politica, da Precario il mondo alla cover di Gaber Io non mi sento italiano. Seduto al pianoforte, il cantautore intona Le navi, il brano che introduce l’album. Una melodia semplice, poche parole, ma capaci di esprimere con grande profondità l’Italia che siamo: i barconi stracarichi di migranti, la disillusione di una generazione, la stanchezza, la disperazione, l’ostinata speranza.

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