Cultura
Silenzio, parla Benigni. Due ore di acrobazie tra Dante e attualità
Un acrobata, un uragano, un torero, un chierico giullare, una rockstar, un cantastorie, un padre prestigiatore. Quante facce ci sono in Roberto Benigni, il punto mobile che ieri sera, per due ore e un quarto, ha tenuto inchiodati a sé gli sguardi del Palaisozaki di Torino, durante l’inaugurazione di Biennale democrazia. Seguendo una tra le tante metafore pensabili, ce lo possiamo immaginare fantasista del calcio spettacolo, di quelli che fanno impazzire i radiocronisti. Ci vorrebbe un Nicolò Carosio per stargli dietro, per riuscire a raccontarne i cross spaziotemporali (da Dante a Norberto Bobbio), i pallonetti di parole, i dribbling tra retorica e poetica, le cannonate capaci di spiazzare sempre e comunque la difesa avversaria. Per fortuna Benigni è cronista di se stesso, abile come nessun altro a trasformare le parole in luoghi, colori, persone.
Testo guida della serata è il VI Canto del Purgatorio, ma l’attore ci arriva solo dopo un lungo percorso di preparazione. Nella prima mezz’ora va in scena la stretta attualità e, secondo uno schema ormai abituale, Benigni si scatena in un exploit politico. Ringrazia il padrone di casa Gustavo Zagrebelsky, “uomo mirabile”, poi veste i panni del giullare e passa a fil di spada la classe dirigente. Ce n’è davvero per tutti: da Marchionne (“oggi a Torino ho visitato la Fiat e il lago Michigan”) ai leghisti, da Bondi a La Russa. E naturalmente grande spazio a Berlusconi, l’uomo che entrando in tribunale è costretto a leggere “scritte insultanti, tipo ‘la legge è uguale per tutti'”. Il Cavaliere è anche dedicatario di una canzone, E’ tutto mio (storia di uomo che vuole comprare l’universo intero, compreso Dio, “cioè me stesso”), da tempo nel repertorio del grande comico ma riproposta con qualche adattamento (ci sono riferimenti alla casa di Lampedusa). Poi d’improvviso tutto cambia: il personaggio Benigni si eclissa per lasciar spazio a un serissimo commentatore, un Virgilio che prende per mano il pubblico guidandolo nella selva delle terzine, tra pungente ironia, dolcezza e commozione. Quel poeta astruso (e un po’ talebano) di certe lezioni liceali all’insegna dello sbadiglio sembra lontano anni luce. Il Dante che si ascolta dalla platea dell’Isozaki è difficile (a volte inarrivabile), ma umanissimo. E’ vivo, carnale e incredibilmente contemporaneo: “spara proiettili verso il futuro, è un valzer rock, come Bach e Jimi Hendrix messi insieme”.
Si parte: inizia la galoppata nel VI del Purgatorio, materia dura anche per i più coriacei, con quel fiume di nomi e riferimenti politici che a noi non dicono più molto. L’attore lo affronta tutto d’un fiato, ne avverte il peso, cerca come può di smarcarsi, a volte perde la bussola e non si trova più. E’ difficile intuire quale sia il rapporto tra copione e improvvisazione: spesso si ha l’idea che Benigni esca dal seminato per pescare in modo estemporaneo nelle sue sconfinate memorie dantesche. Così di nome in nome, di storia in storia, si arriva al nocciolo, al contenuto politico del canto, l’invettiva “ahi serva Italia di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta”. Benigni è prudente, attento a non cadere in allusioni fin troppo scontate. Preferisce lasciar parlare il testo, ben sapendo che nella filigrana di quei versi così sofferti e accesi si possono leggere tante storie e tante delusioni dell’Italia di oggi: “‘non donna di province, ma bordello’. Proprio così, avete sentito bene, ‘bordello’ – insiste l’attore – “a differenza di tanti altri Dante sapeva chiamare le cose con il loro nome”. A fine spettacolo Benigni è stravolto, come svuotato. Anche il pubblico barcolla un po’: forse per la fatica (da quando i cantastorie han ceduto il posto ai reality, ascoltare è diventato difficile) o forse perché soggiogato dalla bellezza. In ogni caso rimanere indifferenti è impossibile. Prova ne è il silenzio perfetto, carico di sentimenti e quasi sacro che accompagna la rilettura finale del canto.
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