Cultura
Il libro di Zagrebelsky sulla politica delle parole
Attento osservatore della contemporaneità, animatore del movimento Libertà e giustizia che lo scorso 5 febbraio ha contribuito con Umberto Eco e Roberto Saviano a riempire il Palasharp di Milano, Gustavo Zagrebelsky ha recentemente dato alle stampe per i tipi di Einaudi Sulla lingua del tempo presente, un breve saggio nel quale analizza con acutezza i tic linguistici tipici della politica, quegli insostenibili tormentoni che sono diventati il pane quotidiano della nostra “dichiarazia”, vale a dire della nostra Repubblica fondata sulle dichiarazioni. Con grande acutezza il professor Zagrebelsky fa notare come il premier Silvio Berlusconi nel 1994 abbia deciso di “scendere” in campo dando così al suo ingresso in politica un’aura messianica e una connotazione salvifica. Berlusconi è anche il primo a utilizzare la parola “amore” nel dibattito politico inaugurando un modus operandi che verrà successivamente acquisito anche a sinistra con lo slogan “Noi, i democratici, amiamo l’Italia”.
Nel suo interessante saggio Zagrebelsky spiega come, sulla scena politica, ogni parola venga utilizzata dopo una profonda analisi comunicazionale. In un paese smemorato e disamorato della politica, i nostri leader, sprovvisti di progetti riformistici, sembrano applicare alla lettera la strategia di Joseph Goebbels: “Ripetete una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà la verità”. E così il Pdl viene descritto come “partito degli italiani” in modo che un voto di opposizione possa sembrare un voto contro il paese, i rappresentanti dell’opposizione vengono assimilati alla “Prima Repubblica” vale a dire all’origine di tutti i mali del paese e per dare l’impressione di dinamismo ed efficacia si largheggia con verbi come “fare”, “lavorare”, “decidere” che non sono più il mezzo ma diventano il fine. Non importa cosa e come il governo faccia, l’importante è comunicare che il governo sta facendo. Il sottotesto, neanche troppo celato, è quello di un governo sprovvisto di ogni fantasia anche nel linguaggio e se, come diceva Martin Heidegger, il linguaggio è “la casa dell’essere”, come potrà il nostro paese avere quella fantasia necessaria a uscire da questa fase di empasse?
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